All'inizio dei miei studi di letteratura italiana a Ginevra, da matricola ingenua qual ero, pensavo che gli scrittori contemporanei imprescindibili
fossero Eco, Moravia, Buzzati, Ginzburg, Bassani, Cassola, Maraini,
De Carlo... Invece scoprii non senza
meraviglia che nel dipartimento d'italianistica vigeva tutt'altro canone:
Bilenchi, Meneghello, Manganelli,
Malerba, Celati, Biamonti, Ceronetti, Morante, Bufalino, Pontiggia, Arbasino, Vassalli, Consolo, Volponi...
Allora erano tutti in attività. Ora sono tutti scomparsi, compreso Gianni Celati (nella foto), che degli autori
elencati è il più eccentrico e inclassificabile. Proprio per entrare nel mondo
di questo affascinante scrittore e saggista è uscito un ampio volume, Il transito mite delle parole, a cura di Marco.
Belpoliti e Anna Stefi, che raccoglie
un folto gruppo di sue interviste, dagli
anni Settanta al 2014, amo della morte. La progressione tamponale consente di seguirlo quasi passo dopo passo,
dai primi testi espressionisti e stralunati (nelle Avventure di Guizzardi c'è
una reminiscenza diretta delle novelle
picaresche), agli anni del DAMS, fino alle successive, affascinanti «scritture documentaristiche» realizzate in
collaborazione con Luigi Ghirri. Ma
una parte non trascurabile delle oltre
seicento pagine è dedicata alla sua battaglia per rivendicare uno spazio nel sistema letterario italiano, appannaggio
quasi esclusivo dei tradizionali gruppi
di potere.
Se in gioventù Calvino è stato il suo
mentore e l'ha lanciato, le tappe fondamentali della sua vita sembrano tutte segnate dal caso. Perfino l'insegnamento a Bologna, dove fu un docente
molto eterodosso, durò solo alcuni anni. Infatti nel libro non mancano gli
strali contro gli eccessi del DAMS e
contro il primato della semiotica, ossia
il dogma attorno al quale era stato creato l'ateneo bolognese. E nel volume la
semiotica viene sbeffeggiata a più riprese, ora ridotta a feticcio dissennato
che sforna schemi e discorsi a caso, ora
paragonata a un boccone indigesto che produce molta salivazione e poco altro.
D'altronde Celati è sempre stato estraneo al principio di appartenenza, prioritario nell'ecosistema letterario italiano, in base al quale per avere successo
occorre far parte di una cricca, di una
loggia o una fazione. E ìn questo destino si è sempre sentito affratellato, anche per ragioni di stile, a scrittori come Tozzi, Campana, Delfini. Senza
contare che tra i suoi modelli ci sono
anzitutto l'Ariosto, da delibare sempre
ad alta voce, e il nostro Robert Walser,
anch'egli un solitario della letteratura.
Ma Celati non si è mai crogiolato nel
risentimento dell'emarginato, perché
i sentieri poco battuti che ha seguito
si sono ogni volta cristallizzati in libri
eccentrici e raffinati, come nei Narratori delle pianure, dove la sintassi si
fa liquida e lo sguardo fotografico, o
Verso la foce, diario di vagabondaggi lungo gli argini del Po, dove descrizioni e divagazioni alimentano
un'immaginazione che tenta di recuperare i rioni della narrazione orale.
A mia conoscenza solo Guido Ceronetti è riuscito a raffigurare con altrettanta efficacia il delta del Po, questo territorio tra terra e acqua così
vasto e così sconosciuto.
Forse il cuore del libro è costituito
dall'elogio della novella tradizionale,
con le sue cadenze orali e con il piacere quasi fisico di raccontare. Per essere efficace, infatti, la parola ha bisogno di un alveo rituale che la protegga
e che ne valorizzi la sostanza fonica.
Insomma, narrare come un cerimoniale. Ma queste caratteristiche sono
state soppiantate dalla dittatura della
trama «cinematografica» e dall'onnipresenza del climax che deve catturare il lettore, due tecniche peculiari del
racconto moderno.
Tuttavia l'esortazione più vigorosa di questo intellettuale messo ai
margini dalla cultura ufficiale è quella sull'urgenza di rimettersi a studiare la tradizione narrativa italiana più
gloriosa e negletta, la letteratura cavalleresca. Perché di fronte a un capolavoro come l'Orlando furioso non
possiamo ripetere la dissennata esclamazione d'Ippolito d'Este: «Mescer
Ludovico, dove avete mai trovate tante fanfaluche?».