Recensioni / Rassegna bibliografica. Filippo De Pieri, Tra simili

Cos’hanno in comune un centro residenziale della Brianza affacciato su un campo da golf scaturito dall’attività promozionale di un grande operatore immobiliare e un quartiere della periferia est di Roma costruito in area 167 per iniziativa di una serie di cooperative di abitazione? E un villaggio di case unifamiliari a schiera della periferia sud di Reggio Emilia, progettato e abitato da un gruppo di architetti cattolici che usufruirono di specifiche disposizioni previste dal piano Ina casa, e alcuni edifici intensivi della periferia ovest di Torino realizzati su un lotto assegnato in base alla legge 167 a una cooperativa originariamente formata da giornalisti del quotidiano “l’Unità”? All’apparenza poco o niente, stando alle classificazioni abitualmente in voga negli studi urbani. Le cose cambiano se si osservano gli stessi oggetti a distanza ravvicinata, a stretto contatto con i luoghi e le fonti, e attraverso una lente investigativa capace di restituire immaginari e culture trasversali. È la linea di ricerca sviluppata da Filippo De Pieri, messa a punto in un ventennio di studi e scambi culturali, nazionali e internazionali, e culminata ora in questo libro che può considerarsi il prodotto maturo di una chiara impostazione metodologica in grado di offrire originali chiavi di lettura per comprendere il paesaggio della città contemporanea. Eterogenei nella loro varietà morfologica e sociale, gli spazi abitativi urbani sono nondimeno attraversati da processi operativi, culture materiali ed esperienze dell’abitare in fin dei conti comparabili, suggerisce l’autore, meglio se con l’ausilio di strategie discorsive tese a mettere in risalto nessi, riverberi e dissonanze. De Pieri si muove all’interno di un largo campo di osservazione, aperto al dialogo tematico e interdisciplinare, ma definisce al contempo alcune coordinate di delimitazione. Per prima cosa, situa lo sguardo alla scala del quartiere, spazio abitativo dotato di caratteristiche di riconoscibilità nell’ambito dei contesti residenziali delle città e già al centro di una serie di filoni di ricerca fioriti in Italia a partire dagli anni Settanta. A tale unità di misura corrispondono i cinque casi di studio prescelti, selezionati sulla base di altri due assi orientativi: da un lato l’abitare dei ceti medi, visti come portatori di aspettative condivise di miglioramento della propria posizione economica e sociale passate essenzialmente per la conquista dello status di proprietari della casa d’abitazione, dall’altro il paesaggio anonimo della «città ordinaria», alla cui costruzione hanno preso parte una molteplicità di promotori, enti e figure professionali. L’esigenza di restare ancorati alla “concretezza degli oggetti” (p. 38) è soddisfatta dalla metodologia di ricerca, basata sulla combinazione di perlustrazioni sul campo e opportuni scavi archivistici: le prime eseguite allo scopo di intercettare voci, tensioni ideali e aspirazioni di chi ha avuto un ruolo nel disegno e nell’attuazione degli interventi (architetti, ingegneri, impresari, presidenti di cooperativa e, in misura minore, residenti); i secondi, condotti in archivi pubblici e privati, hanno consentito, insieme al vaglio di altri materiali (come le riviste specializzate) di mettere meglio a fuoco attori, procedure, percorsi professionali e culture progettuali. Ricorrendo a questo articolato ventaglio di fonti e a una pluralità di registri narrativi, De Pieri affastella in ordine segmentato le cinque storie di caso (il centro residenziale di Carimate in Brianza, il villaggio della Nebbiara a Reggio Emilia, il pdz Casilino 23 a Roma, i peep pesaresi di Villa San Martino e Villa Andrea Costa, alcuni complessi edilizi di corso Monte Cucco a Torino) intervallandole a pagine dense di ragionamenti, sorretti da una vasta bibliografia internazionale, sull’impianto argomentativo della ricerca e le domande che ne costituiscono lo sfondo. Seguendo un approccio mutuato dalla microstoria, l’analisi dei singoli casi supporta la formulazione di alcune ipotesi interpretative sulla natura diversificata dei processi dell’housing del secondo dopoguerra, tese a scardinare le tradizionali ripartizioni in auge negli studi urbani: città pubblica/città privata, architetti di primo piano/professionismo diffuso, edilizia economica/quartieri esclusivi (p. 36). Si tratta di categorie in qualche modo costitutive dei processi attraverso i quali le città hanno preso forma e sviluppo, cui effettivamente pertengono politiche, normative e soggetti spesso diversi. Le ibridazioni tuttavia non mancano ed è proprio su di esse (nonché sul progressivo completamento delle procedure che svincolano i complessi edilizi dalle originarie prescrizioni normative) che insiste l’autore, il quale senza arrivare a dare ormai per superati i confini settoriali, ne caldeggia tuttavia la rivisitazione secondo una chiave orientata a una maggiore generalizzazione dei bagagli conoscitivi, mantenendone intatta la “rilevanza interpretativa e la capacità di descrivere un mondo plurale” (p. 276). Il tema dell’ibrido, in effetti, comparve in Italia già negli anni tra le due guerre: si pensi all’opera dell’Unione edilizia nazionale, oppure ai settori d’intervento coperti dagli Istituti per le case popolari, dediti negli anni Venti alla realizzazione di alloggi a riscatto e, per conto delle cooperative edilizie, persino di lusso. Ma è stata soprattutto l’impalcatura della legge 167/62, aperta al contributo non solo degli enti specializzati, ma anche delle cooperative e dei soggetti imprenditoriali, a diffondere lo sviluppo di processi incrociati nella costruzione delle città italiane, tra cornice e programmazione pubblica e iniziativa agevolata e privata. Legge che, non a caso, decollò a distanza di dieci-quindici anni dalla promulgazione, quando il perdurare dello stato di crisi dell’industria delle costruzioni dopo il lungo ciclo espansivo terminato alla fine dei ’60 stimolò i privati a spostarsi nel campo dell’edilizia convenzionata, a quel punto non solo all’interno dei piani di zona 167, ma anche al di fuori di essi, con le lottizzazioni convenzionate normate dalla legge 10/77. Ne derivò una maggiore omogeneità anche in termini tipologici. Le giunte di sinistra nel frattempo salite al governo di molte grandi città, del resto, si dimostrarono nel complesso ben disposte a utilizzare gli strumenti legislativi dell’urbanistica riformista per convogliare risparmio privato e investimenti di capitale nel settore convenzionato, deponendo in tal modo ogni riserva politico-ideologica circa la maggiore inclusione dei ceti medi, i principali beneficiari dell’affermarsi di questa tendenza, e rifuggendo da un’applicazione restrittiva della 167 a esclusivo vantaggio dell’edilizia sovvenzionata. Nel campo degli alloggi per baraccati, d’altra parte, subentrarono nientemeno che i deprecati “palazzinari”, il cui interesse per lo svolgimento di programmi di edilizia residenziale pubblica per conto dei comuni potrebbe apparire oggi quantomai bizzarro. De Pieri, insomma, avrebbe potuto ricostruire una sequenza di casi potenzialmente infinita per suffragare le proprie tesi, ma ha saputo resistere a questa tentazione, tenendo sapientemente a bada i fili del suo discorso entro una struttura narrativa mai debordante, ben congegnata, dal ritmo incalzante e in grado di sollecitare nuove piste di ricerca, in particolare sul ruolo delle cooperative d’abitazione nel modellare l’immaginario abitativo dei ceti medi e nel caratterizzare il paesaggio residenziale delle città italiane. Come già in precedenza “Storie di case” (curato insieme ad altri autori e autrici), anche questo suo lavoro è destinato a occupare un posto di sicuro rilievo nel panorama degli studi sull’housing del Novecento.