Alto, allampanato,
«magro come uno
stambecco» (Cardarelli), gli occhi chiari, le
orecchie a ventola, il
volto scavato come
quello di Giacometti, Bruno Barilli
(188o-1952) portava sulla testa il roveto ardente di una chioma rossa, e come
il roveto ardente parlava: profetando,
bruciando, scintillando. La parola non
scaturiva mai dallo sviluppo del pro-
cesso logico, non la domavano le bri-
glie dei concetti né poteva organizzarsi
in lunghe frasi, discorsi, svolgimento
di temi: nasceva invece per confricazione con la realtà, per lo sfregamento
della sensibilità sulle immagini, su
qualsiasi immagine capitasse, unpro-
filo, un gesto, un foyer di teatro, il sudore di un'orchestra jazz, la nebbia sopra il Tamigi. Allora schizzava fuori,
come un baleno o un'invettiva, il lessico
di Barilli, furibondo e malinconico,
una lingua italiana che sembra essere
con lui nata e con lui finita.
Barilli è celebre soprattutto per
gli scritti sulla musica (pure la musica
in lui è immagine): era musicista, aveva
studiato a Monaco di Baviera e aveva
scritto due opere liriche e soprattutto
aveva svolto per decenni il mestiere
antipatico del critico musicale
per i giornali. Lo fece come nessuno:
in sprezzo a oggettività e analisi, vaticinava
nella forma di intuizioni episodiche
destinate a un lessico di inaudita
ricchezza metaforica. Il suo libro
su Verdi, Il Paese del melodramma, è
forse il più bello che sia mai stato
scritto in Italia sulla musica.
Ma la produzione letteraria di
Barilli, che al tempo suo fu celebre ed
è oggi quasi dimenticato, è ricca e errabonda,
come errabonda fu la sua vita.
Viaggiò moltissimo, fin quando le testate
gli pagarono le trasferte (e quando
non lo fecero più fu povertà vera la
sua), e di viaggi scrisse, dall'Africa alla
Norvegia. Ora Quodlibet ripubblica il
volume su Parigi (in realtà collazione
di pezzi con diverse destinazioni, come
spiega Antonio Castronuovo nell'ottimo
saggio che chiude il libro): ma
tutti andrebbero resi disponibili, i testi
su Londra, sulla Serbia (patria della
moglie), sull'Austria, sullo Stivale.
La Parigi di Barilli è quella tra gli
anni 20 e 30, quando la Cosmopoli,
come la chiamava, sfiorava la cresta
del suo prestigio intellettuale e mondano
prima di decadere: eppure il ritratto
che il nostro scrittore ne compone
non ha nulla a che fare con la
"festa mobile" evocata da Hemingway
o con la Parigi Paramount immaginata
da Lubitsch. È una Parigi
cupa, umida, gravata dalla nuvolaglia,
la Parigi della fatica di vivere, del
coraggio da rinnovare quia absurdum,
la Parigi brulicante di creature senza
storia, accanite nel conquistare il piccolo
spazio di realtà concesso ai sogni.
È soprattutto una Parigi apocalittica.
Qui Barilli agisce nel modo suo
caratteristico. La sensazione innesca
unprocesso autonomo fatto diinvenzione:
l'immagine captata produce
altre immagini che vivono nella forza
della parola, che è tutto.« Guardiamo
la vita trascorsa dietro una lente d'ingrandimento:
sgranata, formicolante,
vivida visione... i fatti si alterano, la
realtà travisata si sposta, si solleva e
comincia la mise en route dell'immaginazione
». Forse non v'è alcuna Parigi
nella Parigi di Barilli, come non
v'è nessuna Parma nella Parma mitica
del Paese del melodramma: la sua è
una mitopoiesi edificata per il tramite
di una scrittura rapida, impressionistica,
atmosferica. Barocca, la si è
spesso detta, e al Barocco fa pensare
la ricchezza spettacolare dell'aggettivazione,
che traduce infinite sinestesie.
Ma è pur vero che del Barocco in
lui manca, come chiari Fedele d'Amico,
l'aspetto teatrale, rappresentativo.
Il suo Barocco è piuttosto la categoria
stilistica di un'autobiografia parziale
e sconnessa, ma perseverante.
Anche la Parigi di queste pagine
è la facciata dietro la quale sinasconde
una confessione autobiografica, tanto
più accesa quanto più difeso da gentilezza
e mansuetudine era l'uomo.
Scrivendo, Barilli spende sé stesso fino
allo scialo emotivo, e alla fine a chi
legge resta l'impressione di qualcosa
di esausto e di disperato che è in ciascuna
delle sue pagine, dove si respira
lo stesso nugolo che lo scrittore riconosce
tra le sale del Museo Grevin:
«Una atmosfera soffocante e surreale,
che ti mozza il respiro, uno scirocco
cheti fa invecchiare, un'afa dinanzi alla
quale rinculi». E la confessione qui
si esplicita: «Sudiamo anche noi vivi,
che pur siamo d'argilla; poi quando la
terra ci copre, ne usciamo, apiccole rate
notturne, in fuochi fatui».