Nei suoi cosiddetti «romanzi» Paolo Nori ha dato vita a un principio di digressione assoluta. Il contenitore-libro si può riempire di qualsiasi cosa: dai casi minutamente personali e «insignificanti» ( il «guardare la polvere» mutuato dal post-dadaista Daniil Charms) alle riflessioni di portata più generale. L’unità compositiva, in questo formalista Doc (non a caso di scuola russa), è data dal ritmo e dall’intonazione molto più che dalle quanto mai labili vicende narrate.
A dieci anni dall’esordio narrativo Nori s’è scoperto un talento, diciamo, saggistico. Fra i suoi ultimi libri spicca «Tre discorsi in anticipo e uno in ritardo» (DeriveApprodi), indimenticabile presa per il culo dell’arch-star Calatrava, del suo ponte, e degli amministratri di Reggio Emilia che tanto ne menano vanto. Nei suoi modi bislacchi Nori dice cose molto serie (e dunque discutibili) sull’architettura contemporanea, sui suoi fasti pubblicitari, sulla sua perdita di contatto coi contesti storici e sociali. Di questa vena «saggistica» ora «Pubblici discorsi» (Quodlibet Compagnia Extra, pp. 249, € 14) raccoglie gli esiti letterari. Nori dice la sua su questioni come la traduzione, le lingue immaginarie, il rapporto tra storia e letteratura, C’è una lettura di Anan karenina che, fra una boutade e un paradosso, finisce per assommare più di ottanta pagine. Se è «saggistica» lo è fra molte virgolette, certo: si tratta piuttosto di una caricatura della libertà divagatoria e «gestuale» della sagggistica classica. Comicamente Nori mette in scena la sua impreparazione, la sua calcolata naiveté; a volte truffa smaccatamente riempiendo intere pagine di nonsense. Soprattutto – come fa sempre – «scrive» i modi, i tic e i portamentim dell’oralità. Ma così facendo raggiunge verità notevoli. Per esempio, ragionando sul mirabile Europeana di Patrik Ourednik, conclude: «Il Novecento, con tutto quel che c’è stato dentro, sembra una grande storia degli abbagli».