Recensioni / Pubblici discorsi

È ormai prassi che appena un libro fa parlar di sé, l’autore, viene reclutato dal mercato culturale con le richieste più bizzarre: rubriche di ogni tipo su giornali, radio e tv, prefazioni, antologie, sceneggiature, conferenze, festival e quant’altro. Questa malsana vulgata secondo la quale scritto un libro si diviene tout court intellettuali a tutto campo, ha fortunatamente le sue felici eccezioni. Soprattutto se l’autore in questione è uno come Paolo Nori che di romanzi ne ha scritti parecchi. I dieci testi che compongono Pubblici discorsi sono nati da singole occasioni in cui l’autore emiliano è stato chiamato a esprimersi pubblicamente su temi quanto mai eterogenei: da un Discorso sulla storia e sulla letteratura già presente in Mi compro una Gilera a un Discorso sulla traduzione fino al più complesso discorso in due puntate su Anna Karenina.

La propensione alla digressione di Nori, trova in questi discorsi la sua vera e propria realizzazione, con gli annessi pregi e difetti. Se ci sembra difficile credere  che il pubblico sia riuscito a seguire il filo di alcuni ragionamenti, per chi legge i continui allontanamenti dal tema preso in esame risultano invece punto di forza di un’ argomentazione costruita per immagini e divagazioni che nel respiro dell’intero intervento si assestano come tasselli di un puzzle che, una volta terminato, lascia con quel senso di stupore di chi ha compreso il quadro generale tutto d’un colpo.

Così come aveva messo in crisi la prosa narrativa, Nori scardina anche la formalità dell’intervento critico, della prosa che si usa definire “scientifica” e qui invece valica irrimediabilmente i confini che gli sono propri e si fonde con la narrazione.

C’è di tutto nelle pagine di questi Pubblici discorsi; si riflette sulle tendenze della narrativa contemporanea nel nostro Paese e ci si misura con grandi autori del passato come Tolstoj e Gogol’, ci si chiede perché un traduttore italiano per dire “stavo male” usa l’espressione “avevo una tarantola di inquietudini nel petto”, si spiega perché l’italiano è una lingua immaginaria e perché l’anarchia “nel suo significato più intimo […] di unica soluzione possibile, bellissima, miracolosa è destinata a fallire”.