Ma quando dormiva Gio Ponti?
Forse mai. Morto a 88 anni nel
'79, ha mancato solo la rivoluzione del
web e l'uomo come prolungamento di
un telefono, ma anche lì chissà quanti
disegni, quanti prototipi, quanti scritti ci siamo persi. Nella sua vita, cui
non è mancato niente, è perfino andato in guerra (la Prima mondiale), ha
esercitato con straordinaria produttività la professione di architetto, di
pittore, designer, costumista, scenografo, fondatore e direttore di riviste
che hanno fatto storia (in particolare
Domus), ma anche collaboratore di
quotidiani e saggista. E poi: creatore
del più autorevole premio mondiale
di design, il Compasso d'Oro, infaticabile scrittore di lettere (centomila)
spedite in mezzo mondo, divulgatore
di stili di vita eleganti e culturalmente aggiornati in spregio ai ciaffi che
aggrondavano le case italiane. In tutto questo lavorio creativo, non va dimenticato che ebbe una famiglia con
quattro figli generati insieme a Giulia
Vimercati, moglie brianzola di stirpe
nobile e di gran supporto pratico ed
emotivo, come usava un tempo.
Un imperdibile volume, Officina
Gio Ponti, a cura di Manfredo di Robilant e Manuel Orazi (Quodlibet), passa in rassegna scrittura, grafica, architettura e design del poliedrico milanese. Otto gustosi saggi raccontano
la storia creativa di Ponti ma anche di
un'epoca che ha dato un'impronta indelebile alla nostra contemporaneità. Se pensiamo all'idea di interno di
famiglia immaginata da Ponti, non
possiamo che sposarne i presupposti:
una casa riempita da poche cose belle, ossia oggetti utili e di design, la
pianta a spazio unico con pareti scorrevoli, i mobili autoilluminanti. Per
personalizzare questi interni, evitando l'effetto showroom, pochi oggetti
artistici, molte fotografie di parenti e
amici incollate magari su un'anta di
un armadio, tipo tappezzeria, bei libri e belle riviste, che raccontano la
storia intellettuale dei padroni di casa. Questo Officina Gio Ponti, con la sua
elegante copertina e il ricco apparato
di immagini e fotografie che raccontano una carriera unica e irripetibile
nella nostra Europa della burocrazia,
dei vincoli e delle crisi continue, se ne
starà appunto benissimo su un tavolo
del vostro salotto. Probabilmente, come si ipotizza nel saggio introduttivo
di Di Robilant e Orazi, "l'aver lavorato
all'inizio della propria carriera su
grafica e ceramica ha abituato l'architetto milanese a compiere una traiettoria breve e lineare tra l'idea e la sua
realizzazione, in un processo autoriale", creando un metodo di lavoro che
da Milano puntava all'internazionalizzazione del mercato.
Di fatto, non si è creata una scuola
pontiana, perché il suo talento si è
sviluppato in così tanti campi, dalla
tazza del gabinetto alla tazza da caffè,
dal grattacielo alla sedia, dalla grafica ai contenuti saggistici, e tutto questo in un arco di tempo così lungo, da
rendere difficile essere pontiani. Di
quale Ponti? Di che periodo? Nel
1957, la fascetta del saggio di Ponti
Amate l'architettura, diceva: "Non un
libro per gli architetti ma un libro per
gli incantati dell'architettura". Vale
anche per questo volume, che racconta e illustra il pensiero e le realizzazioni di un progettista che vedeva
"l'architettura come mezzo per la
spettacolarizzazione del paesaggio
urbano, inteso come scenografia abitata". Ecco dunque l'idea di un'architettura peripatetica, dinamica, che va
camminata come un prato va galoppato. Per chi come me abita davanti a un
simbolo pontiano, il Pirellone, è uno
strazio vederlo vuoto e abbandonato,
e non percorso da quegli esseri umani per cui è stato concepito.