Fino a che il mercato dell’arte tirava alla grande, i testi di riferimento non erano quelli dei critici o degli storici, ma volumi illustrati compilati da giornalisti pseudo esperti in economia con l’unica missione di far passare ciò che si vende, meglio se costa caro. Se c’è un fattore positivo nella crisi è che i valori autentici dovrebbero tornare a galla. Si fa in fretta, allora, ad accorgersi che molti degli artisti equiparati alle “blue chips” sono in realtà delle “sole” tremende. E che se si vuol leggere (non solo guardare le figure) qualche buon saggio di critica d’arte, tocca rivolgersi al passato, perché le ultime generazioni stanno producendo davvero poco. Dopo esserci deliziati con le ristampe degli articoli di Federico Zeri, ecco tornare La fine dell’avanguardia, un incantevole libretto di Cesare Brandi (1906-1988), appena riedito da Quodlibet (pp. 194, euro 16), che include l’omonimo articolo pubblicato nel 1949, oltre al successivo aggiornamento del 1951 e la polemica postilla del 1978. Acute osservazioni Forse non è propriamente corretto attribuire doti divinatorie e preveggenti a uno scritto di 60 anni fa: è del medesimo avviso il prefatore Paolo D’Angelo che ci avvisa del fatto che a Brandi sfuggivano necessariamente i temi del postmoderno. Eppure il testo dello storico senese abbaglia, ed è difficile non verificare sull’attualità intuizioni così brillanti e acute. Per Brandi nel 1949 l’avanguardia è finita. O quantomeno agonizzante. Colpa di quell’attitudine derivata dal romanticismo che sente indispensabile la frattura con il passato. Se il punto fondamentale dell’opera sta nella novità, l’arte stessa non può che accettare di mostrarsi instabile e futile. Persino il passato dovrà essere letto in una luce nuova, né ci si potrà accontentare di godere un quadro o un testo letterario classico: ci sarà sempre, dietro l’angolo, un esegeta o un regista impegnato a trovarci del nuovo, a ogni costo [...]