Recensioni / Dieci interventi disorganizzati

Chi non ama l’emiliano Paolo Nori gli fa alcune critiche: scrive troppi libri, scrive sempre delle stesse cose, di fatti personali filtrati dall'alter-ego Learco Ferrari, e la lingua, questi periodi lunghissimi, pieni di ripetizioni, con una sintassi che è un bricolage, che vanno non si sa bene dove. I motivi elencati, crediamo, insieme a certa posizione nel mondo - Learco esordì così: «Io sono quello che non ce la faccio» -, sono poi gli stessi per amare Noti. Ne aggiungiamo uno: ascoltarlo dal vivo quando legge è un’esperienza che fa far la pace con la pagina scritta.
Questo nesso con la condivisione del testo con gli ascoltatori - e non è performance perché si fa da secoli - è anche il fatto principale di cui tener conto davanti a Pubblici discorsi (Quodlibet, pp. 246, €14,00). Il volume raccoglie dieci interventi letti in diverse occasioni, senza editing o aggiustamenti, con un effetto di continua ridondanza dato dalle ripetizioni interne. Nori riprende in diverse situazioni gli stessi aneddoti, offre moduli-pagina che ribattono i concetti chiave: exempla che deviano dall'argomento principale ma che infine, all’improvviso, vi rimandano in modo legante.
Tra episodi personali e citazioni - senza virgolette - di scrittori amati come i russi Chlebnikov e Charms – amuleti per l’umorismo paradossale - e gli italiani Cesare Zavattini e Raffello Baldini, Nori divaga su argomenti come la traduzione (Sputare negli stivali) e le lingue inventate (Comandano loro), ma costruisce. Esemplari, in questo senso, gli excursus spesi nel «Primo discorso su Anna Karenina» Come mai questo titolo (L’antimateria, gli stivali e la cera) dove l'ascoltatore prova una qualità altrimenti poco comunicabile: una dinamica delle attese simile a quella costruita da Tolstoj. Se, infatti, Anna Karenina nel romanzo appare solo al XVIII capitolo, nel discorso di Nori arriverà solo alla fine.
Domina, in questi scritti, una felice disorganizzazione progettuale che segue nell'esposizione un istinto ritmico, più che una classica argomentazione. Se si sta al gioco, dunque, ci si diverte, incontrando anche la posizione dell'autore sulla lingua letteraria e sulla traduzione. L'autore, che traduce dal russo, cita a più riprese un incipit di Beckett: I was feeling awful un semplice «Stavo male», che venne tradotto con «Avevo una tarantola di inquietudini in petto». Noti dunque scrive: «Ecco, io mi chiedo: Cosa avrà pensato, quel traduttore li? Beckett ha preso il Nobel, avrà pensato, non può mica scrivere Stavo male». Lo stesso problema affligge gli scrittori con il risultato che: «L'italiano letterario (...) è un posto stranissimo, un posto dove non si scopa, si fa sesso, un posto dove non tira il vento, si alza un mite grecale». Un eccesso di culto verbale, mentre Nori cerca «una lingua concreta» che non va «verso il riconoscimento letterario» ma verso la «creazione di immagini» che a loro volta finiscono per rompere ogni trama.
A un Nori narratore, ormai, si può affiancare un Nori teorico. A chi ne chieda ancora ragione, rispondiamo come fa l’autore: «Dopo ne parliamo».