Recensioni / Elettro-futurismo del poeta Govoni

RACCOLTA.Il titolo promette lampi e marinettismi, i versi sono un campionario di stilemi ottocenteschi. Avanguardia? Forse, ma con un retrogusto antico.

Nel 1911 l’aggettivo «elettriche» sulla copertina

di una raccolta di poesie non poteva che significare

Futurismo. La semplice esibizione dell’etichetta
però non vuol dire necessariamente
che i componimenti fossero davvero in linea con
quelli di Marinetti & Co. Ma è davvero mancanza
di coerenza se il titolo mostra una cosa e il
libro ne dice un’altra? Non erano stati proprio i
futuristi quelli che avevano battuto sul valore
dell’annuncio? E i loro manifesti non sono da
considerare tra le loro opere più importanti?
Chissà se Corrado Govoni avrà pensato di volgere
fino al paradosso questo cruciale aspetto
della poetica futurista quando pubblica, ventitreenne,
la sua quinta raccolta Poesie elettriche
dedicata a Marinetti, Buzzi e Lucini, ora riproposta,
a quasi cent’anni di distanza, da Giuseppe
Lasala (Quodlibet, pp. XXVIII + 175, € 14,00).
Rileggendo i componimenti, l’impressione
di un Govoni futurista per caso che non si riesce
a staccare da un campionario di luoghi, oggetti e
stilemi ottocenteschi è difficile da rimuovere.
Riconsiderando invece le poesie insieme ai rilievi
del saggio introduttivo di Lasala le cose
cambiano. Tutto l’ossessivo repertorio di organi
di Barberia, burattini, suorine e seminaristi al
passeggio domenicale, vasi di fiori appassiti,
mesti cimiteri, corone sfatte, siepi spoglie, pallide
viole non dovrebbe essere considerato soltanto
«cascame tardo simbolista» di cui il poeta
non riesce a fare meno, ma materiale per inceppare
la macchina futurista. Insomma, l’incapacità
di Govoni di essere un avanguardista non è
un limite, secondo Lasala, ma una strategia del
controcanto che si manifesta sin dal primo componimento.
«La poesia introduttiva di questo volume,
intitolata a Venezia elettrica ha tutta l’aria
di una puntuale contestazione del manifesto
di Marinetti Contro Venezia Passatista». Alla luce
di questa neanche tanto cauta dissimulazione
futurista, il componimento I cocomeri può essere
letto allora come un’ironica parodia nella quale
i grossi frutti diventano «bombe formidabili /
[che] ogni buon cittadino / può procacciarsi [per]
estinguere / la sua ardente sete d’eroismo».
Questa ristampa della prima edizione delle
Poesie elettriche – la seconda è del 1920, significativamente
priva della dedica a Marinetti e
Co. – offre spunti di notevole interesse. Anzitutto
permette un attraversamento giocato sul filo
dell’ambiguità fra critica e condiscendenza al
movimento futurista di cui si celebra quest’anno
un secolo dalla nascita. Inoltre ci restituisce
un’immagine un po’ inconsueta di Govoni. Nella
sua «bulimia analogica», nel suo disordinato
catalogo di immagini – ma più tardi anche alcuni
fra i poeti più schizzinosi attingeranno da lui
– si individua una poetica più ragionata che mostra
come l’ossessione per il nuovo dell’avanguardia
può avere un retrogusto già antico. L’elettricità
magnificata dai futuristi viene riportata
alle «calamite», alle «campane magnetiche», alle
«pile galvaniche» per lasciare intendere che
come della tecnologia anche del futurismo si farà
storia e finirà nei musei.
Anche se fossero solo frutto del caso e non di
una meditata poetica che fa la fronda al Futurismo
fingendo (male) di abbracciarlo, gli stridori
della poesia di Govoni ci offrono un campionario
di oggetti e situazioni proiettati a un domani
nel quale già si sa che giungeranno in ritardo.
Una poesia della futura inattualità al passato
«con pozzi sonori come tamburi / in cui par d’ascoltare
ancora / l’antico pianto delle Danaidi»