Dentro il karaoke di una narrativa da supermercato, dove il motivo è sempre «dato», si potrebbe far scendere per un attimo, nei suoi modi disagevoli e nella sua lingua aspra, il «nume» leopardiano del classico moderno Federigo Tozzi (1883-1920)
Si ha voglia di partire, davanti a questa nuova edizione della raccolta di novelle Giovani di Federigo Tozzi (edizioni Quodlibet, pp. 180, € 14,00), allestita invita dall'autore stesso ma uscita postuma per la sua prematura scomparsa nel 1920, considerando la veste in cui esce oggi come una significativa metafora di quello che un grande artista come Tozzi continua a essere per le lettere italiane. La casa editrice Quodlibet, con una secchezza creativa perfettamente aderente al contenuto linguistico dell'opera, accompagna la raccolta con una precisa introduzione del curatore, Giancarlo Bertoncini, la cui lettura molto attenta alla ricostruzione dei testi si è potuta giovare di riferimenti alla lezione manoscritta originaria dei medesimi, così da sottolineare l'attenzione e la cura dello scrittore verso un rigore costruttivo che scolpisce i finali di ogni racconto, scorciando o allargando nel passaggio dalla prima redazione alla definitiva; e nello stesso tempo libera le novelle dall'armatura di note, commenti, che per un classico moderno costituiscono la veste che serve a mediare l'impatto con una diversa contemporaneità, ma lo allontanano anche in un'aria smussata, mitigata, didascalicamente spiegata e chiarita. Il carattere terribile e «numinoso» del classico si offre qui nella sua nuda nettezza. Abbiamo la salutare sensazione di essere senza comode maniglie davanti all'irta, spessa sostanza di questa lingua difficile e dura; Tozzi ci sembra così contemporaneo a tempi sempre più ostili, i nostri appunto, posti come siamo davanti al suo mondo come lui davanti ai suoi personaggi: in modo frontale, non in comoda prospettiva.
Ecco quindi come nel nostro fastidioso karaoke di una narrativa da supermercato, dove il motivo è sempre dato, svolto nei modi previsti dalla legge dell'informazione e della comunicazione, questo classico moderno non viene così proposto, ma opposto nei suoi modi disagevoli, franti, come uno spettro che ci viene in visita o, meglio, più materialmente, un osso che si pone attraverso la gola degli armi in tutta la sua indigeribile e irriducibile potenza. La suggestione leopardiana del titolo allude alla gioventù intesa come malattia della vita, irresolutezza, sospensione e dilemma: cose che non rimandano quindi a una stagione anagrafica di passaggio, ma che non passano se non con la morte. E tutte le storie del libro si annodano intorno alla messa in scena di personaggi gravati da questa malattia incurabile che è la vita, agitati e scossi da quei «misteriosi atti nostri», casuali, modesti, che, senza naturalistiche spiegazioni invadono la vita e la segnano della loro incognita natura.
È stato detto che Tozzi è un autore per critici, e in effetti la popolarità di cui gode non è alta, nonostante le ripetute proposte e gli aggiornamenti, gli approfondimenti che la critica più avvertita è venuta facendo nel secolo, da Debenedetti a Baldacci, da Luperini a Marchi, entrambi curatori proprio della raccolta di novelle qui presentata: Luperini per la Ruzzoli Bur nel 1994 insieme ad altre novelle, e Marchi nel Meridiano delle Opere nel 1986; nonostante tatto questo, appunto, Tozzi ha sempre continuato a parlare come da dietro un vetro: di qui quella notazione di Tellini, proprio sul Tozzi novelliere, che nell'analizzare la sua ricerca di una lingua arcaica e secca, moderna e antica, parlava dell'invenzione di un linguaggio «meno vistoso e più vitreo». Non compiacente, insomma, con il lettore, in cerca di narcisistiche gratificazioni.
Fin dall'inizio della sua attività di scrittore, alla ricerca dell'occasione per mettersi alla prova, il problema di quale lingua usare si misura con un misterioso annuncio pubblicato a pagamento sul quotidiano «La Tribuna» nel 1902, dove una giovane signorina che poi diventerà la moglie desidera iniziare una corrispondenza epistolare. Uscire dal suo piccolo mondo per virtù di parola diventa per il giovane Federigo un'esca appetibile. È lo stesso anno in cui il giovane Hofmannsthal, riparato e mascherato nei panni di Lord Chandos, compone la sua famosa lettera in preda allo stesso disagio di parola: «Ma le parole astratte di cui la lingua, secondo natura, si deve pur servire per esprimere qualche giudizio, misi sfacevano in bocca come funghi ammuffiti». Così lo scrittore austriaco. La somiglianza di accenti con questo articolo di Tozzi, «Rerum fide», è impressionante: concordanza di concetti, pensieri: «Molte volte, mi sono domandato se nei nostri scritti, con i quali esprimiamo più fervidamente il pensiero, non sentiamo che le parole adoperate non hanno più con noi un'aderenza assoluta… ora, a me sembra che tutte le nostre parole, specie quelle più significative, abbiano un non so che di vieto che non vuole adattarsi allo sforzo che noi domandiamo. C'è da sospettare che esse ci costringano ad un'angustia, da cui ci vogliamo liberare a tutti i costi». Nella novella di Tozzi qui raccolta, intitolata «li crocifisso» - novella che condensa in modo più sbaragliante il suo sperimentalismo -, si incontrano appunto silenzi, trasalimenti che bucano continuamente la narratività. Come nell'altra posta in apertura a questo volume, «Pigionali», la storia di due anziane vicine di casa che stanno da anni sullo stesso pianerottolo, ma che non sono riuscite mai a stabilire un rapporto di amicizia, uscendo dalla minorità di un silenzio che le ha, per così dire, avvolte e soffocate fin dall'inizio. Il celeberrimo inizio della novella «Il crocifisso» ha questa folgorante presa: «Ho pensato esista un mondo che Dio non ha finito di creare. La materia non è morta e non è viva»; tutto si inquadra in una visione che ha per referente la Creazione biblica. Due personaggi: una giovane prostituta e un protagonista accecato dalla perturbanza in cui lo getta la presenza della giovane donna. Dalla bocca della donna non uscirà mai voce, e tutta la novella è assorbita al di qua di un silenzio che è il segno di una fase della Creazione fluida e magmatica. Non si parla che per sobbalzi, strappi, in queste novelle. Ed ecco che il tanto dibattuto finale, col caldo che fa schiantare il legno di un crocifisso al cui suono secco la giovane si desta «da dentro il mucchio della spazzatura», più che un segno redentivo ribatte il chiodo di un accanimento divino che chiude nel cerchio del sacrificio e della crudeltà.
Il Dio di Tozzi, come la crudele Fata dai capelli turchini del grande libro di Collodi, non è che l'epifania intermittente che non incrocia mai le sue creature: «S'imagini di vedermi in una selva, solo, a' piedi di tronchi smisurati; e di lontano io oda avvicinarsi il latrato d'infiniti cani e io fugga, e la paura mi faccia correre e urlare come un dannato nella selva delle arpie; ad un tratto, mi sembra che una voce mi chiami, una voce melodiosa in quell'inferno di suoni bestiali: io rispondo con un grido e mi soffermo ansando, girando gli occhi smarriti... la voce mi chiama, io singhiozzo - i cani sbucano, gli occhi sanguigni - io caccio un urlo di terrore e corro, corro mentre la voce si spegne e gli animali sono alle mie calcagna». È una lettera alla fidanzata del 1903, in «Navale»: Dante e Collodi, quindi, disegnano il profilo di una esistenza tutta quanta all’insegna della letteratura, come bene hanno sottolineato, nei loro studi su Tozzi, Baldacci e Marchi. In questo particolare brano, poi, sembra di risentire a distanza l’ansito degli assassini nel Pinocchio, dietro il povero burattino: il legno torto della vita.