Recensioni / Un apologeta dell'indifferenza se ne va dalla vita e poi torna


Un uomo che dorme è la storia di un commiato. Un commiato dal mondo, dai suoi oggetti, dalle persone che lo abitano. Un commiato da tutte le vie di Parigi, dalle fontane, dalle statue equestri, dai cinema, dalle case e da quello che contengono, dalle bacinelle rosa di plastica, dalle tazze di Nescafè appoggiate su una mensola, dai pacchetti di sigarette aperti, dalle mosche, dai lavandini, dalle crepe sui muri. Un commiato privo di violenza, quasi gentile. Nessun incidente, nessuna morte improvvisa. Soltanto una progressiva perdita di interesse per le cose. È bastato un minimo scarto nella vita piuttosto ordinaria del protagonista, la decisione un mattino di non alzarsi, di non prendere l'autobus per la Sorbona, di non sostenere la prima prova scritta dell'esame di Sociologia Generale, per mettere in moto il meccanismo, per avviare il ticchettio della macchina, per far sì che il suo corpo, la sua parola, la sua volontà di giovane venticinquenne squattrinato lentamente si allontanassero dal flusso indistinto del quotidiano. Da lì, da quel non-gesto, da quell'atto volutamente mancato, è cominciato tutto. Saltare sistematicamente gli appuntamenti con gli amici. Ascoltare, immobile, i loro passi nel corridoio, i timidi colpi bussati alla porta, il fruscio dei bigliettini fatti scivolare per terra e mai aperti. Non caricare più l'orologio. Non desiderare nulla, non sperare in nulla. Girovagare senza meta per i quartieri di Parigi, enumerando all'infinito i pomelli delle porte, le panchine di legno verde dei giardinetti, i cartelli stradali, non certo per ricordare, per farsi trapassare gli occhi dalla luce delle immagini, ma per azzerare tutto, per dimenticare,«ombra torbida, duro nocciolo di indifferenza, sguardo neutro che sfugge gli altrui sguardi».
Scritto nel 1967 da un Perec appena trentenne non ancora interamente catturato dal demone enigmistico dei palindromi e degli acrostici, Un uomo che dorme (riproposto oggi da Quodlibet nella traduzione di Jean Talon e con una bella postfazione di Gianni Celati) sembra essere il controcanto ipnotico, il risvolto nero della passione cumulativa, tipicamente perecchiana, per gli oggetti, per l'eterogeneità stipata del quotidiano. Pubblicato due anni dopo Le cose, Un uomo che dorme è ancora una volta un romanzo saturo di materiali, di luoghi, di tracce di realtà. È una Parigi insistentemente presente quella che si srotola sotto lo sguardo muto del protagonista, fatta di vetrine, ristoranti russi, fotografie, monetine e guanti persi in un rigagnolo. Una Parigi che avrebbe certamente fatto la gioia di Baudelaire o dei surrealisti, ma che in questo caso sembra essere del tutto inutile nella sua estenuante profferta di immagini. Nessuna bellezza nei passi senza meta dello studente (ex-studente) di Perec, nessuna «ebbrezza anamnestica», come avrebbe detto Benjamin, nel suo girovagare per le sale silenziose del Louvre. Nessun significato nascosto, nessun lampo improvviso intravisto tra le lettere mancanti di un vecchio cartellone pubblicitario, nessuna imperfezione del selciato di quelle che avrebbero fatto trasalire Breton o Apollinaire, nessuna passante chiusa nel piombo scuro del suo vestito a lutto, dolorosa e fiera tra la folla di un marciapiede stracolmo.
Il commiato, la dipartita di un uomo dalla vita che lo circonda e lo contiene, non ha nulla a che fare con la sparizione degli oggetti del mondo, ma con la loro indifferenziazione. Di fronte agli occhi appannati dal sonno della coscienza non esiste gradazione o gerarchia estetica; tutti i cibi hanno lo stesso sapore, tutti i vestiti sono uguali, tutte le notizie sulle pagine di «le Monde» vanno lette da cima a fondo compresi i necrologi, le previsioni del tempo, le quotazioni di borsa, le visite guidate, i programmi alla radio, le lauree, i ringraziamenti e la vendita di appartamenti di lusso.
Ritirarsi dalla vita non significa coprirsi il volto di fronte al reale, ma semplicemente non operare alcuna scelta. «L'indifferente non ignora il mondo, né nutre nei suoi confronti ostilità. Quello che ti proponi non è di riscoprire le sane gioie dell'analfabetismo, bensì di leggere senza dare alle tue letture nessuna importanza particolare. Quello che ti proponi non è di andare nudo, bensì di vestirti senza che ciò debba implicare ricercatezza o trascuratezza; quello che ti proponi non è di lasciarti morire di fame, bensì di unicamente nutrirti».
Da qui la lenta discesa agli inferi del silenzio, i giorni e le notti passate nella soffitta di rue Saint-Honoré aspettando che il tempo scorra, che la cosa finisca lì, che tutto si chiuda una volta per sempre. E gli incubi mostruosi e l'infelicità di estenuanti partite a flipper, intervallate dalla certezza febbrile di essere completamente libero, di non aver bisogno di nessuno, intoccabile e vittorioso come quei «vecchi istitutori che vorrebbero riformare l'ortografia, e i pensionati che credono di aver messo a punto un sistema infallibile per recuperare le cartacce».
Poi, improvvisamente, così come era cominciato tutto, la fine. Non una fine alla Bartleby, una lenta consunzione di fronte al muro di mattoni del proprio imperativo nevrotico. No, un improvviso riprendere dell'interesse per il mondo, misterioso e inaspettato nella sua venuta così come era stato un tempo misterioso e inaspettato il passo dell'indifferenza. Un progressivo riaffiorare degli oggetti e dei luoghi alla superficie dello sguardo. Una rinascita insomma.
«Un uomo che dorme tiene intorno a sé in cerchio il filo delle ore, gli ordini degli anni e dei mondi» scriveva Proust nella Recherche, osservatore silenzioso del sonno di Marcel. Un uomo che dorme, un uomo che sogna, scrive Perec, non tiene intorno a sé che i fili aggrovigliati della propria illusione. «Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l'indifferenza non insegna niente (...) No. Non sei più il padrone del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva venire la notte. Non sei più l'inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti, in Place Clichy, che la pioggia cessi di cadere».