C'è un filo invisibile e tuttavia robusto che tiene insieme fenomeni così diversi come la contraddizione e la melanconia, il rito e il sogno, la sinestesia e la metonimia: la nostra natura di animali ambivalenti. È la tesi sostenuta, e abilmente argomentata lungo un percorso ricco di stimoli e suggestioni, da Marco Mazzeo nel suo libro Contraddizione e Melanconia. Saggio sull'ambivalenza (Quodlibet Studio, 2009). Chissà quante volte sarà capitato ad ognuno di noi, dinanzi alle domande più diverse, di rispondere «si e no», «questa cosa mi piace e non mi piace». Risposte di questo tipo non sono soltanto l'esito di un atteggiamento psicologico di indecisione ma la spia di un fenomeno di portata ben più ampia. La capacità di affermare e negare la stessa cosa - è questo che si intende qui innanzitutto con ambivalenza - non è una delle tante possibilità a nostra disposizione ma gioca un ruolo cruciale dal punto di vista antropologico.
Non è un caso che essa sia strutturalmente connessa ai due tratti peculiari della nostra specie: il linguaggio, che rende possibile la stessa alternativa tra vero e falso su cui si radica l'ambivalenza, e la neotenia, quella condizione di cronica immaturità somatica e instabilità pulsionale che ci espone costantemente al rischio del disambientamento e sulla quale si fonda la nostra radicale socialità.
Il percorso delineato nel libro si snoda così lungo due direttrici, mai separabili né semplicemente giustapposte, ma sempre tra loro intrecciate: quella logico-linguistica, dove l'ambivalenza si manifesta innanzitutto come possibilità della contraddizione, e quella antropologica, nella quale, invece, essa assume le sembianze della melanconia, stato d'animo ambivalente per eccellenza.
Seguendo un'antica tradizione inaugurata da Aristotele, Mazzeo considera la melanconia non uno stato patologico ma una condizione in grado di fornirci «la descrizione primigenia della natura umana» proprio perché «porta al diapason l'instabilità pulsionale della specie». Nella melanconia, ambivalente sia nella sua origine sia nelle sue molteplici e contraddittorie manifestazioni (che possono variare dalla mania alla depressione, dall'euforia all'abbattimento, dall'iperattività alla paralisi) la contraddizione smette di essere un affare riservato a soli logici o sofisti per mostrarsi come «l'esito, sempre possibile benché mai necessario, della struttura logica della nostra specie».
Dire che che si tratta di un esito soltanto possibile mette Mazzeo al riparo da facili estremismi, solo apparentemente più radicali. Nessuna visione idilliaca del pensiero incoerente, ma nemmeno fobia dell'incertezza. Causa, e insieme rimedio, della nostra instabilità pulsionale, l'ambivalenza è, ad un tempo, attraente e terribile, «un bene possibile» e un «male necessario». Proprio in quanto ci colloca nello spazio della possibilità, essa è sia ciò che fonda la nostra capacità di scegliere, di dire no allo stimolo e trovare nuove alternative, sia ciò che ci espone in modo ineluttabile all'errore e all'incertezza. Questo atteggiamento, lontano sia dall'esaltazione sia dal tentativo di addomesticare l'ambivalenza, percorre l'intero libro ed emerge nelle analisi dei singoli fenomeni che Mazzeo prende in considerazione. Si vede bene, per esempio, nella proposta di interpretazione del principio di non contraddizione aristotelico «non come un principio inviolabile ma una, seppur fondamentale, legge: possibile per chi nasce umano, decisiva per non diventare un vegetale, ma di per sé non necessaria, cioè né scontata né data una volta per tutte»; così come la si vede nell'uso delle logiche capaci di includere al loro interno la contraddizione, come la logica partecipativa di Lévy-Bruhl e la bi-logica simmetrica di Matte Blanco.
Ciò che rende particolarmente interessanti queste analisi è che esse non mirano semplicemente a contrapporre, con un gesto unilaterale e semplicistico, la logica classica al pensiero partecipativo ma intendono mostrare la maggiore radicalità e capacità inclusiva di quest'ultimo: «non è il principio di simmetria a corrodere la logica classica, ma è la logica classica a nascere come forma 'contenuta' (cioè circoscritta e messa a fuoco) del simmetrico».
A garantire questa inversione è la consapevolezza del carattere intrinsecamente relazionale della natura umana. Si apre così una strada alternativa rispetto al diffuso tentativo, che - come Mazzeo giustamente osserva - rischia di trasformarsi in ostinazione feticistica, di isolare un singolo tratto in grado di distinguerci dagli altri animali. Sia che tale specificità venga individuata in quella che Chomsky chiama la facoltà del linguaggio in senso stretto, di fatto coincidente con la capacità ricorsiva (esclusivamente umana e specificamente linguistica) sia che, come vogliono invece gli oppositori di Chomsky, la facoltà del linguaggio vada intesa in senso largo (includendovi anche sistemi senso-motori e cognitivi) lo scenario in fondo non cambia. Sono comunque sempre prospettive che guardano alla facoltà del linguaggio come proprietà in atto e non invece come relazione potenziale.
Dire che il linguaggio è prima di tutto relazione significa che esso è originariamente aperto a ciò che linguistico non è, o, meglio, che la stessa facoltà del linguaggio consiste nell'intrinseca relazione tra linguistico e non linguistico. Su questa originaria duplicità, su questo incastro tutto umano tra logico e biologico, si fonda la nostra costitutiva ambivalenza. Un'ambivalenza che, come fa dire Sofocle al coro dell'Antigone, è proprio ciò che rende l'uomo, tra tutti i fenomeni della natura, il più deinòs, una parola con la quale i greci indicavano, insieme, il terrificante e il meraviglioso.