Recensioni / Gilles Clément per un paesaggio bio-politico

Avanza con progressi l’acquisizione di una nuova sensibilità per i temi dell'ecologia applicati alla costru­zione del paesaggio abitato. Que­sta presa di coscienza si diffonde nonostante la stampa, specializza­ta e non, sia forma a descriverci edifici futuribili dalle enfatiche so­luzioni formali e tecnologiche. Agi­sce, al di là del fragore mediatico, la «nebulosa sentimentale», come la definì l’architetto belga Lucien Kroll, che mette in discussione l’i­deologia utilitaristica e antiecologi­ca con la quale si sono pianificati città e territori. Primo atto di questa azione preservare le biodiversità nel paesaggio taylorizzato: conser­vare e arricchire cioè le culture smarrite nelle periferie, promuo­vendo la spontaneità, e «lasciare che il disordine naturale agisca in armonia con il disordine raziona­le». Anche Gilles Clément, tra i più interessanti paesaggisti contempo­ranei, pensa e agisce su questo fronte. Anch'egli è convinto che nel «giardino planetario» che abitiamo occorre «lasciare le cose come stanno». In opposizione alla forma fissata a priori, agli esercizi accade­mici del disegno e in contrasto con il calcolo delle pratiche agrarie, egli ci indica quali sono le operazioni che l'uomo può compiere per pre­servare le diversità (essenze vege­tali e animali) che anche il più mo­desto terreno contiene e preserva. Dal «giardino in movimento»-mo­dello iniziale, il suo, nella Creuse (1977), fino al parco parigino della ZAC André Citroën (1985) - Clé­ment è approdato con la recente pubblicazione del Manifesto del Ter­zo paesaggio (Quodlibet, a cura di Fi­lippo De Pieri, pp. 91, € 12,00) a una più ampia riflessione sull’uso dei nostri territori antropizzati. Il suo sguardo si è rivolto a quella moltitudine di aree residuali che dopo essere state sfruttate riman­gono abbandonate, e a quelle che ancora sopravvivono all'antropizza­zione. Sono questi terreni che non appartengono «né al territorio del­l’ombra né a quello della luce», modesti di dimensione e senza for­ma, marginali ai luoghi abitati e di­spersi, a costituire il Terzo paesaggio. E l'insieme di questi spazi inde­cisi, trascurati dal dominio dello sfruttamento dei suoli - risultato delle politiche agricole comunitarie nelle campagne, e delle trasforma­zioni urbane nelle città - a costitui­re il solo rifugio per la biodiversità: spazi che, una volta riconsiderati, assumono in Clément un chiaro si­gnificato politico ed etico. Come nel pamphlet di Seyes del 1789, che definiva il Terzo Stato, il Terzo paesaggio non esprime né il potere né la sottomissione al potere, ma aspira a diventare qualcos'altro. In particolare, tende a preservare e ar­ricchire la «mescolanza planetaria» di ogni specie vivente pur nel pre­cario equilibrio dipendente dalle attività umane e dalle logiche del­l'economia di mercato, tese al pie­no sfruttamento del pianeta. Acco­gliere le diversità del mondo è il compito del prossimo futuro. Se nel Plan Obus di Le Corbusier per Algeri l'architettura accoglieva qualsiasi stile abitativo, e il Jordin Planétaire di Clément il rifugio esteso, ma finito, nel quale inven­tarsi come abitare con le più nume­rose specie viventi.

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