Leggendo, dieci anni fa, i testi teorici di Cesare Brandi, mi era sfuggito il tono spengleriano, da «declino dell'Occidente», che pervade La fine dell’Avanguardia (appena ristampato da Quodlibet, pp. 194, € 16,00), un monologo che mitraglia senza discriminazione qualsiasi corpo in movimento: filosofia e politica, letteratura e fumetto, architettura e musica, poesia e danza. Controbattendo all'inconsistenza della neoavanguardia teorizzata la Peter Bürger in un libro che ha fatto epoca, Benjamin Buchloh ha la tempo ribadito la necessità di considerare dialetticamente le interazioni - e non l'incompatibilità tra la produzione artistica e l'industria culturale, tra il paradigma della rappresentazione e quello della ripetizione. Solo così si possono ritessere i fili tra la situazione avanguardistica e la sua complessa ripresa nel secondo dopoguerra, dal recupero di Dada e Costruttivismo a quello di figure moderniste per eccellenza quali il monocromo e il readymade, la griglia e il collage. Anthe Greenberg aveva contrapposto Avanguardia e Kitsch (e non, ha sottolineato Thierry de Duve, Avanguardia e Accademia come ci si poteva aspettare). Ma questo accostamento, anziché giustificare in qualche modo le posizioni di Brandi - in quanto sintomo generazionale o sentire dell'epoca - le rende ancora più fragili: molti anni prima del saggio brandiano, infatti, Greenberg si schierava risolutamente dalla parte dell'avanguardia, presto identificata, con Verso un nuovo Laocoonte (1940), con l'arte astratta e presto con il modernismo tout court.
Ma mi sono spinto troppo in là, perché Brandi non solo non riconosce, come Burger e Greenberg del resto, la neoavanguardla (piuttosto che il postmoderno il quale, secondo l'equilibrata ma conciliante introduzione di Paolo D'Angelo, seguirebbe direttamente all'avanguardia), ma neanche l'avanguardia storica. Il surrealismo? Una «deiezione convulsa», una «secrezione incontrollabile», un «suicidio al dentifricio», una droga per la coscienza artistica, che nulla ha a che vedere con l'inconscio, che è informe, irresponsabile e onanista, né con la pseudo-scientifica psicoanalisi, rifuggita da Brandi. L'astrazione? «Esercitazione di snobisti estetizzanti», «segno non significante», mero formalismo specchio dell'inautenticità dell'esistenza. Se per Bürger la fine dell'avanguardia segna un dolorosissimo passaggio storico, in quanto travolge il progetto utopico di rigenerazione sociale, Brandi al contrario, in una postilla sballata (1978), sembra gioire delle sue analisi storicistiche e criticamente azzardate di quasi trent’anni prima: «Ma se quando scrissi quel saggio, il titolo era una profezia, anche se non difficile o improbabile, ora è una constatazione». il suo anti-modernismo è un rizoma inestirpabile, al punto da non realizzare che nel «frattempo» (ma trent'anni non sono pochi!) era passata sotto ai suoi occhi la parabola della neoavanguardia. E i suoi recuperi, il più felice dei quali riguarda Pino Pascali, non portarono mai a una revisione dell'impianto generale.
A Brandi si sono spesso perdonate le chiusure verso l'arte contemporanea più innovativa in nome del suo articolato pensiero estetico. Ma dal punto di vista specifico della critica d'arte, sembra che l'architettura teorica abbia a volte piuttosto ostacolato la comprensione dell'arte contemporanea, come se Brandi potesse perversamente riconoscerla o «legittimarla» malgrado la teoria pazientemente elaborata. Segno e Immagine, ad esempio, contiene certo una penetrante rilettura dello schematismo kantiano e della sua natura ideogrammatica, ma l'arte ne esce con le ossa frantumate. Per un «equilibrato sviluppo della civiltà», si legge, segno e immagine devono seguire percorsi indipendenti e ogni contaminazione è una «gravissima alterazione». Coerente con tale premessa brillantemente giustificata sul piano teorico, Brandi è costretto a far piazza pulita di tutto il ventesimo secolo di cui era figlio. Un atteggiamento colpevole considerata la sua sterminata «cultura d'immagine».
Ma l'efficacia di una teoria estetica non si misura anche dalla capacità di offrire una migliore intelligenza delle opere d'arte nonché di complessificare e riorientare le stesse pratiche artistiche? Se in quegli anni molti artisti americani si riappropriavano, spesso acriticamente, delle posizioni di Greenberg per render conto della loro produzione, come immaginare un artista italiano del secolo scorso - ma dovrei dire degli ultimi sette secoli - rifarsi a Segno e Immagine la cui teoria salvava dall'epocale naufragio solo la Grecia classica e Giotto? Non a caso per Brandi il più grande artista italiano dopo Tiepolo era Morandi, su cui modella la sua fenomenologia della creazione: l'arte come realtà pura, de-purata dal plesso esistenziale, che immunizza l'oggetto dalla vita attraverso l'intervento della coscienza. Una coscienza tenuta ferma come la barra del timone e al di là della quale si scatena il torbido maelstrom dell'irrazionale. Solo la classicità di Morandi rispondeva al «contemperamento», alla «fermezza di rapporti», alla «pienezza d'immagine», al suo presentificarsi che non rimanda ad altro da sé, alla «decantazione pura dell'oggetto in immagine» dell'estetica di Brandi.
La fine dell'avanguardia aggiunge, di suo, una disarmante curvatura geopolitica che si salda, come prevedibile, all'eurocentrismo (le pagine sulla negritudine del jazz o sugli americani «frigidi, puerili ed aridi» mettono oggi i brividi). In sintesi, chi dice Forma dice Coscienza, chi dice Coscienza dice Razionalità e Civiltà occidentale, e soprattutto dice Atene e Firenze (il riferimento a Roma doveva allora suonare un po’ sinistro), ovvero Grecia classica e Trecento italiano. Da qui non si scappa. E pensare che questo saggio segue di pochi anni il conflitto mondiale, passato sopra la testa dell’umanista senese come una stella cadente la notte di san Lorenzo! Della società dello spettacolo restituisce l'aspetto più caricaturale («nel cuore stesso della nostra civiltà resuscita l'orda», scrive a proposito dell'«incontinenza» del tifo sportivo), tralasciando del tutto la catastrofe storica e il traumatismo che ne sono quantomeno le concause. Del resto attraverso Braque, Brandi non comprendeva meglio il cubismo ma, a suo dire, Ambrogio Lorenzetti, attraverso Pollock non l'astrazione americana ma le scritture cufiche sui manti delle madonne del Trecento. E non si darà Burri senza Piero della Francesca. In questo Brandi incarna magnificamente la specificità della storia (e degli storici) dell'arte italiana, la loro - la nostra- difficoltà di sentirsi a proprio agio nel presente senza gli ululati di vecchi fantasmi. Per questo l'avanguardia resta per lui un movimento senza memoria né progetto, un'«arte come oggi» ancorata all'unica dimensione che sarebbe in grado di concepire, quella del presente.
Tuttavia, come noto, Brandi stesso ha spesso fornito l'antidoto alle sue chiusure, come nel caso dell'eurocentrismo, cui rispondono i suoi straordinari diari di viaggio. Così era il nostro: capace, da una parte, di gridare, con il suo accento senese, «Burri è merda! Burri è merda» durante un pranzo in onore di Morandi alla metà degli anni cinquanta, ma pronto, dall'altra, contro ogni chiusura preconcetta, a tornare a riguardare queste opere, a sottoporle alla verifica dello sguardo, a rivedere le sue posizioni fino a divenire uno dei più fini interpreti di Burri e redigere quella che resta la migliore monografia sull'artista. Quando chiedevano a Morandi chi fosse il miglior artista italiano della generazione successiva alla sua, questi rispondeva «ahimé, Burri». Nessuna interiezione fu più sospirata per Brandi.