Recensioni / Perec e l'illusione di chiamarsi fuori

La sveglia suona a lungo, ma il protagonista di Un uomo che dorme di Georges Perec (nella nuova traduzione di Jean Talon, postfazione di Gianni Celati, Quodlibet, pagine 170, euro 12,50), non ha intenzione di alzarsi dal letto. Questo ragazzo di «venticinque anni e ventinove denti» dovrebbe sostenere la prova scritta di un esame. E invece quell'esame sarà il primo di una lunga serie di appuntamenti con la vita cui decide di mancare. D'ora in avanti vuole soltanto aspettare il niente che avanza, senza coltivare più né rancori né desideri di sorta. Trasformandosi in «un duro nocciolo d'indifferenza», in un impenetrabile «sguardo neutro» che nulla può scalfire.
Il libro di Perec è del 1967, ma come sempre accade con la vera letteratura ci parla con straordinaria puntualità del nostro presente. Ci racconta una tentazione quella di chiamarsi fuori, mai come oggi così diffusa. Soprattutto tra le nuove generazioni. Una tentazione che sarebbe riduttivo racchiudere sotto la formula della "depressione"; perché la fragilità psicologica, a volte, acuisce lo sguardo sulla tragica fatuità di un'affermazione sociale che finisce per trascurare il cuore segreto dell'esistenza.
Alle spalle di Un uomo che dorme di Perec c'è Bartleby, lo scrivano di Melville, che a ogni invito all'azione rispondeva immancabile: «I would prefer not to», preferirei di no. Come Bartleby, questo personaggio rifiuta l'ininterrotta chiamata ai diversi impegni volti alla propria realizzazione. Lui vuole - al contrario - azzerarsi, scomparire. Vuole trasformarsi in un'ombra, in un puro occhio che guarda: l'occhio neutro di un topo. Al pari di quello, non intende essere mosso da fantasie e preferenze. Vuole scivolare sopra le cose. Vuole diventare «l'anonimo padrone del mondo, quello su cui la storia non ha più presa, quello che non sente più la pioggia cadere, che non vede più venire la notte».
Le giornate, così, scorrono uguali le une alle altre, in un abulico distacco. Tra camminate senza meta nelle strade parigine, la lettura intensa quanto distratta dei giornali, il cibo ingerito due volte al giorno come mero nutrimento, reiterate serate al cinema senza alcuna attesa per le pellicole che si trova casualmente a vedere.
Eppure, proprio quando tale deriva si é ormai trasformata in routine, ecco la svolta repentina, imprevedibile. A prendere il centro della scena, ora, è una voce che ci svela quanto inane sia il tentativo di prendere le distanze dal tumulto della vita umana. No, l'occhio del ragazzo non potrà mai assomigliare a quello di un topo, perché a osservare e giudicare il suo comportamento c’è sempre e comunque un altro sguardo. Un occhio interiore perennemente vigile, cui non può sfuggire. E difatti: a differenza di ogni altra creatura animale, il Nostro si rigira a lungo nel letto prima di prendere sonno. Sovente si risveglia nella notte fradicio di sudore. Si morde le unghie finché non sanguinano. E quando gioca a flipper lo scuote l'imprevisto tilt che interrompe la partita. In breve, continua a essere un uomo. Con tutti i fantasmi, le attese e le paure, che contrassegnano l'esistenza degli uomini.
Lasciandosi naufragare nel flusso impersonale della realtà, credeva di potersi disfare del rompicapo del tempo, ma si trattava di una pia illusione. Perché il tempo decideva per lui; non lui del tempo. La strada imboccata è senza via d'uscita: il disincanto radicale verso un insensato «attivismo» - suggerisce Celati- si è convertito nel più pericoloso degli incanti: l'idea di bastare a se stesso.
L'uomo che dorme, che vagheggiava di essere «il padrone anonimo del mondo, quello su cui la storia non aveva presa», a questo punto dovrà risvegliarsi dal suo torpore, dal maldestro sogno di una presunta neutralità. Perché il mondo può essere indifferente a noi, ma mai viceversa.