Recensioni / Esistere, desistere o resistere?

Uno studente abita a Parigi, in rue Saint-Honoré, in una misera camera d'affitto nel sottotetto di un palazzo. Una mattina, d'improvviso, s'inceppa: dovrebbe alzarsi per andare all'università e sostenere un esame, ma non si alza. «Non è un gesto premeditato, d'altronde non è neanche un gesto, bensì un'assenza di gesto». Smette di darsi da fare, smette di avere un ruolo, smette di essere in gioco. Fissa le crepe sul muro, fissa il proprio volto nello specchio incrinato, non si fa trovare dagli amici. Inizia da quel momento il rifiuto della vita del «dover essere, dover fare»; inizia un'esistenza di solitudine, di interminabili passeggiate per Parigi, di preciso, meticoloso, lasciarsi andare mantenendosi in vita. Mangiare, camminare, tacere. «Tu non hai più voglia di proseguire, né di difenderti, né di attaccare».
Un uomo che dorme, terzo romanzo di Georges Perec, pubblicato nel '62, torna in libreria con una nuova bella traduzione di Jean Talon. La descrizione di un'esistenza che si trasforma in una sopravvivenza è condotta in seconda persona, con quello stesso "tu" intimo e coinvolgente di La modificazione di Michel Butor, altro romanzo di quegli anni che parimenti racconta un mancato svolgimento. Il protagonista di Un uomo che dorme mostra i sintomi di quella che oggi chiameremmo depressione, e che oltre a una sorta di atarassia includono momenti di esaltazione quando pensa di aver raggiunto il traguardo dell'indifferenza più radicale, e con ciò esser divenuto «un anonimo padrone del mondo». Salvo poi tornare a sentirsi in trappola. La scrittura di Perec si tiene ben lontana da ogni psicologismo e ci trascina nell'esistenza dello studente mostrandoci quello che i suoi occhi registrano, cioè l'infra-ordinario (definizione perecchiana) che di solito scorre trasparente sotto il nostro naso. È un'iperdescrittività che va a segno, sostenuta da una scrittura magistrale, tesa e tersa, carica di dettagli interessanti ma senza fronzoli. Troviamo elenchi affascinanti e al contempo angoscianti: l'inventario di osservazioni fatte dal protagonista nel suo girovagare per la campagna e il catalogo di "mostri" che incrocia nel suo girare per le strade di Parigi. Per qualche pagina siamo quasi portati a invidiare quel venticinquenne che si permette un gran rifiuto, come se lui ce l'avesse fatta e noi no. Salvo poi riconoscere nel suo paranoico avvitarsi non una prova d'eroismo bensì i sintomi di una malattia dell'animo, di un autocompiacimento affascinante ma anche disgustoso. Chiuso il libro, viene voglia di riprenderlo in mano, come un moderno breviario per le nostre esistenze aggrovigliate tra opposte spinte di competizione e contemplazione.