Recensioni / Da Agamben a Wachtel in un campo di tensioni

L’espressione «scienze umane» da un lato suscita la sensazione di una forzatura. L'idea di uno di quei fastidiosi ossimori che servono a esorcizzare le contraddizioni che i due termini accostati sprigionano. L'impressione che si stia tirando per i capelli qualcosa di sfuggente per assicurarlo a un metodo rigoroso, com'è appunto quello scientifico, che immobilizzi l'«umano» riducendolo a un oggetto di conoscenza qualsiasi. D'altro lato, a chi ha una certa familiarità con le «scienze umane», lo stridore dell'espressione rivela anche che tra una coppia di opposti (spirituale/materiale, umano/animale, ecc.) può esistere una zona indeterminata, una terra di nessuno che in qualche modo serve ai due ambiti che si oppongono per costituirsi. Osservate da questa seconda accezione, le contraddizioni delle «scienze umane» non rappresentano soltanto un limite, ma anche una via d'accesso a una dimensione ibrida nella quale il dato di fatto e l'interpretazione sono inestricabili. L'etnologia e l'antropologia di Claude Lévi-Strauss non hanno soltanto risolutamente testimoniato a favore di questo secondo modo di vedere l'antitesi «scienze umane» e con essa quella tra natura e cultura, ma hanno fatto esplodere a tal punto questo campo di ricerche che le ripercussioni si sono fatte sentire in molte altre discipline segnando indelebilmente molti aspetti della cultura umanistica e scientifica del secolo trascorso e di quello odierno. Della tensione centrifuga e delle ricadute interdisciplinari del pensiero dell'antropologo francese offre testimonianza, per il centenario della nascita, il volume Lévi-Strauss fuori di sé (a cura di Mario Niola, Quodlibet, pp. 265, € 24,00). È una raccolta di testi eterogenei scritti e pubblicati in tempi diversi dalla fine degli anni quaranta a oggi su alcune opere dello studioso, sull'applicazione di alcune sue idee e sulla sua personalità intellettuale. Già soltanto scorrendo i nomi degli autori - Agamben, Augé, Barthes, Bataille, Clifford, Le Goff, Leiris, Roudinesco, Sontag, Vidal-Nacquet e Wachtel - ci si può fare un'idea considerevole dell'impatto degli studi di Lévi-Strauss.
Pur se in modi diversi, dai saggi emerge ripetutamente l'idea che la ricerca di Lévi-Strauss si dispiega sempre attraverso coppie che si compongono o si respingono e che comunque sono refrattarie ad assumere un unico termine. Continui «con» o «contro» che fanno dell'autore delle Strutture elementari della parentela uno dei più fieri decostruttori dell'autonomia del soggetto e della dimensione culturale che gli è più propria cioè l'umanismo. Lévi-Strauss non ricerca tanto origini nelle quali già spesso mascherata una finalità, ma legami oppositivi che si sono stretti a causa della necessità. Luoghi che non si disegnano con un pieno o un vuoto, ma come un campo di tensioni che si reggono per il loro stesso opporsi. Come sottolinea l'intervento di Bataille, soprattutto attraverso lo studio dell'enigma dell’incesto Lévi-Strauss insegna che se non si lasciano perdere le chimere dell'«inizio» e della «fine» si rischia dì perdere tutto quello che c'è nel mezzo. Seguendo un forte suggerimento che gli viene dall'arte surrealista, Lévi-Strauss si rivolge principalmente ad accostare oggetti che a prima vista sembrano non avere niente in comune, a dislocarne altri in insiemi diversi da quelli di provenienza, a ricombinarne altri ancora in bricolage tanto audaci quanto suggestivi. Oppure, assecondando la pur forte affinità alla pittura dell'astrattismo geometrico disegna schemi e combinazioni capaci di rivelare parentele inaspettate. Più in generale, prendendo spunto dalla linguistica strutturale di Saussure, Lévi-Strauss procede in modo tale da considerare i segni prima dei significati, le forme prima dei contenuti. Per lo studioso, se il contenuto venisse prima della forma forse non ci sarebbero le culture, giacché non ci sarebbe bisogno di costruire congegni che producono senso. Dunque il senso non sta all'origine. Anzi, l'origine stessa viene sempre ricercata a giochi fatti, a ritroso, indietreggiando fino ad accorgersi di non potersi mai veramente fermare - tanto da pensare che l'origine propriamente detta non ci sia neppure.
Dopo Hegel e nel clima culturale dell'espansionismo occidentale, ma anche dell'inizio della critica all'eurocentrismo, la filosofia si è sforzata di trovare modi di conoscenza che si congedassero da se stessa. Nonostante ciò, la maggior parte di questi sforzi è stata riassorbita nella speculazione e non è riuscita ad andare oltre la critica alla metafisica. Marx, Nietzsche, Freud, Wittgenstein e lo stesso Heidegger che ne sembra più consapevole di altri hanno riconfermato la metafisica proprio a partire dal tentativo di negarla. Nel saggio di Derrida - forse uno dei più significativi del volume per capire la capacità d'influenza dell'opera di Lévi-Strauss al di là del suo ambito disciplinare - tutto ciò viene discusso e messo in relazione ad una sola eccezione: l'etnologia. Essa non costituirebbe soltanto un controcanto, ma finalmente un percorso alternativo alla metafisica. La capacità dell'etnologia di essere «fuori di sé» non le dà soltanto la possibilità di rimanere indipendente, ma anche di reinterrogare dall'esterno la filosofia e con essa il sapere in modo tale da costringerli a una passività mal veramente sperimentata che ha il suo analogo nella relativizzazione della cultura occidentale al cospetto delle altre culture. E tuttavia, pur se in modi diversi dal discorso filosofico, anche l'antropologia di Lévi-Strauss mira a rinvenire delle strutture universali. In esse lo studioso non ha mai visto dispiegarsi valori da proteggere, ma ferree necessità, rapporti di forza che non dovrebbero lasciare spazio alla saudade della sua spedizione brasiliana o alla tristezza che sin dal titolo intride il suo capolavoro Tristi tropici. Nonostante ciò, come mostra il saggio di Wachtel, tale dimensione malinconica è presente nella sua opera e forse sta li a indicare che compiuto il distacco dal soggetto e dalla metafisica rimane difficile eliminarne anche la nostalgia.