Recensioni / Il volto e la parola

Nel saggio Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza, Felice Cimatti vuole risolvere un problema: immaginare una scienza (non esplicativa) che sfugga alla contrapposizione tra l’interno dell’uomo (pensieri, sentimenti, desideri) e l’esterno (il linguaggio, i gesti, il comportamento).               La proposta dell’autore è dunque quella di superare questa distinzione interno-esterno così carica, a suo dire, di pregiudizi, per fondare una psicologia del “soggetto superficiale”. Questa espressione sembrerebbe alludere ad un altro soggetto che starebbe sotto di esso, in profondità. In realtà, come una figura dipinta è superficiale, in piena vista, così il soggetto è del tutto implicato in ciò che appare. Quello che interessa è la “superficie” del soggetto, il visibile, perché in questo apparire c’è tutta la vita dell’individuo. Per spiegare questo concetto Cimatti usa l’immagine del nastro di Möbius, un nastro che mette in vista tutto quello che c’è e ciò che non appare non c’è: manca un “dietro”, ma senza “dietro” evidentemente non può esserci un “davanti”. L’idea di questo libro è che la soggettività umana sia qualcosa del genere: essa esiste, per gli altri e per sé, se è manifesta, se è pubblica; altrimenti non c’è nessuna soggettività, perché non c’è nulla di misterioso nell’ “io”. La “superficie” è il “luogo” in cui si svolge la vita umana, un luogo non individuabile nello spazio, ma che in realtà c’è: si tratta della lingua che parliamo comunemente ed in cui pensiamo. Come viene sottolineato nel titolo del saggio, il volto appare nella parola, perché è nella parola che si manifestano i fenomeni specifici della vita umana: il volto parla.
In un dialogo costante con Wittgenstein, Cimatti sviluppa questa idea secondo cui il “soggetto superficiale” vive nella lingua, in particolare nel “gioco linguistico” che, a sua volta, non ha lati interni, è reale solo nella sua applicazione: il gioco c’è soltanto se qualcuno lo gioca.                                                Il soggetto non è separabile dal gioco linguistico in cui partecipa, quello in cui chi parla dice “io” ad un “tu”. L’individuo, non distinguendosi dalle pratiche della lingua in cui si manifesta come soggetto, non ha un essenza, proprio come l’essenza dello stormo è tutta nel fatto che quello stormo si compone in una certa temporanea forma: l’apparenza coincide con la sostanza.
L’autore si sofferma anche su un altro aspetto della questione: la lingua è un’entità naturale, biologica in senso forte, perché rappresenta l’ambiente in cui vive, ma allo stesso tempo non può essere spiegata come si spiegano gli altri oggetti biologici. La lingua infatti non ha una propria materia, come invece un animale o un vegetale, perché è la “superficie senza spessore” dove pensiero e suono si incontrano in un segno per diventare significato e significante.                           Questa combinazione produce quella forma in cui si manifestano i giochi linguistici e, dal momento che il soggetto umano è tale perché partecipa a questi giochi, sarà allora un soggetto superficiale com’è superficiale l’ambiente cioè la lingua in cui soltanto può vivere. Cimatti precisa che questo individuo ha ovviamente anche un corpo, fatto di carne e sangue, ma è solo in virtù della logica che questo corpo può dare ragioni del proprio comportamento, e non semplicemente reagire alle sollecitazioni esterne che lo colpiscono. E’ importante sottolineare che, secondo l’autore, questa visione della soggettività ha dei conseguenze per quanto riguarda la psicoanalisi: l’analisi è interminabile perché il soggetto non è definito come una sostanza stabile, ma si sviluppa in una continua ridefinizione di sé, articolandosi nella lingua e nella storia.  
Nell’ultima parte del saggio, Felice Cimatti si concentra sul problema dell’altro, del rapporto fra individui, sostenendo che una soggettività radicalmente singolare non ha senso perché essa si costruisce nello spazio pubblico delle relazioni con gli altri: è solo perché ci sono gli altri che può esserci l’“io”. In quest’ottica l’etica è immanente al gioco linguistico, è nell’altro con cui dialoghiamo, se accettiamo la possibilità di parlare con lui e di ascoltarlo.