Recensioni / Georges Perec. Un uomo che dorme

Torna con una nuova traduzione uno dei libri più sorprendenti di Georges Perec. L’autore de La scomparsa e de La vita istruzioni per l’uso, membro dell’Oulipo e teorico dell’infra–ordinario, nel 1967, alla vigilia del maggio francese, compone questo libro straordinario, parente stretto di testi memorabili come il Bartleby di Melville e l’Oblomov di Goncarov. Il testo di Perec, scritto alla seconda persona singolare, appare come una sorta di diario in cui il protagonista parla a se stesso. La vicenda è quella di uno studente parigino che abita un sottotetto in cui a malapena si incastrano un letto e il necessario per vivere. La mattina lo attende l’esame di sociologia generale, ma invece di alzarsi decide di rimanere dormire. Inizia da quel giorno una vita a metà tra sogno e dormiveglia, un’esperienza sempre più radicale di sottrazione in cui il protagonista diviene mero osservatore del mondo che lo circonda, pedina silenziosa di una quotidianità (quell’ordinario così caro a Perec) nella quale cerca di fondersi e confondersi con tutto se stesso. È facile leggere un attacco frontale all’attivismo tipico dell’Occidente che impone ritmi di vita basati sull’azione continua, imposta carriere da costruire e flussi oltre i quali non c'è che la solitudine. Ed è proprio questa scelta solitaria ad apparentare il protagonista di Un uomo che dorme a figure esemplari come quella di Bartleby, lo scrivano di Melville, citato nel testo dallo stesso Perec, come padre adottivo di questo studente parigino.
Quella che dovrebbe essere un’esperienza di pura sottrazione subisce tuttavia nel finale un brusco contraccolpo. Come ha notato Gianni Celati nella postfazione al volume, “il libro sembra la storia di una liberazione fallita”, laddove il protagonista ribalta questo suo estraniarsi come conquista e vittoria su un mondo che ora non può più sfiorano per cui si proclama “un anonimo padrone del mondo”. Ma nel finale sta lo scacco dell’Uomo che dorme, condannato a osservare la schiera di chi popola il mondo, i fenomeni esterni dell'universo, senza poterli dominare, senza potersene realmente sottrarre. In una perenne – kafkiana – attesa che la pioggia cessi di cadere.