Recensioni / Nata sotto un tavolino. Due titoli per conoscere Dolores Prato (1892-1983)

La ristampa di Campane a Sangiocondo e l'edizione critica dell'autobiografia Giù la piazza non c'è nessuno: una scrittrice segnata dalla marginalità, un lessico famigliare fatto di sbarre e cancelli

Dolores Prato (1892 1983) torna all'attenzione, nel suo destino «postumo», di cui ella stessa parlava apertamente a Elena De Angeli, poco prima dell'esordio nel 1980, sull'orlo dei novant'anni, con Giù la piazza non c'è nessuno da Einaudi, nella versione editata da Natalia Ginzburg. Tutto in quella edizione dimezzata sembrava voler riportare a un altro «lessico famigliare» l'oltranza di questo testo, inclusa la copertina, che recava una solare piazza di Telemaco Signorini, lontanissima dai luoghi marchigiani e dal gusto visivo dell'autrice, che amava le immagini scabre di Arnaldo Ciarrocchi. Malgrado i premi e i riconoscimenti, in vita all'autrice toccò un destino amaro di autoedizioni e di marginalità, interrotta dalla collaborazione a riviste di cultura, con il leitmotiv della passione dantesca, a cui tornò nel corso di tutta la sua esistenza, in cui agì a lungo come insegnante.
Oggi due editori mandano in libreria opere, quasi in contemporanea. Avagliano propone la prima ristampa attuale di Campane a Sangiocondo (a cura di Noemi Paolini Giachery, pp. 309, € 15,00) e Quodlibet l'edizione critica di Giù la piazza non c'è nessuno (a cura di Giorgio Zampa, notizia di Elena Frontaloni, pp. 701, € 28,00). Una doppia occasione per affrontare una prosa ricca, basata su una scelta radicale, che fa coincidere la lingua con l'esistenza di chi scrive. Il tutto nello scavo ossessivo, maniacale dell'autobiografia, scritta a moltissimi anni di distanza dai fatti, articolata in sequenze di rifiuto e acquisizione di identità.
Così recita l'incipit del romanzo maggiore, opportunamente riportato sulla quarta di copertina del volume: «sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: "rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?" Ambiente non c'era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo». Molte sono le immagini di porte, cancelli, sbarre della memoria, che tornano per raccontare l'infanzia a Treia, cittadina marchigiana (che da tempo dedica alla Prato occasioni di memoria, tra l'altro pubblicando per i tipi del comune le due sillogi di inediti Le mura di Treia e altri frammenti, 1992 e Interno Esterno Interno, 1996), nel suo rispetto per le forme portato all'estremo, mentre l'identità parlante si trova di fronte a un muro di esclusione. Restano incise nella memoria le pagine in cui si narra dell'impossibilità di avere un abbraccio o una carezza, in una società che accettava con fatica l'esistenza di una bambina senza padre e senza madre. Come in Scottature (edito a suo tempo sempre da Quodlibet a cura di Alejandro Marcaccio nel 1999 e tradotto poi in francese da Monique Baccelli, nonché portato a teatro nella rigorosa versione di Maria Paiato), anche qui la grazia arriva insieme all'onta. In quel caso una gita al mare si trasforma per brama di prendere il sole, mai prima disponibile, in una dolorosa ustione del corpo e dell'anima, e qui il tocco di una balia prezzolata (o meglio di una «facchina», a esprimere il totale disamore nell'atto) le produce dei porri sul viso che devono poi essere tolti con la pietra del diavolo, in una operazione dai tratti horror.
Eccezione in questo tempo fermo, la zia Ernesta, scandalosa e amatissima nella sua breve visita, cui si deve il titolo, tratto da una filastrocca: «staccia minaccia, buttiamola giù la piazza». Nel sllenzio della dimora condivisa con la zia e Zizì, il parente prete, risuonano solo, come pausa all'assenza di comunicazione, le «scantafavole» raccontate dalla vecchia Scolastica, narratrice bisbetica, che a lungo si fa pregare, prima di svelare i propri tesori. Il resto è un continuo movimento nel tentativo di scoprire sensi e significati celati: «tutti quelli che incontravamo per le scale, o per i corridoi, scoppiavano a piangere, soffocavano strida, le parole più accennate, che dette, tutte umide». L'osservazione quindi si fa minuta, come nella prosa nitida di un amato autore trecentesco, incisa di visioni e epifanie, in cui gli elementi del quotidiano sono sempre leggibili in modo diverso. L'alternanza offerta da questo irto itinerario di conoscenza è tra «riti» e «cose» e, come viene dichiarato nella descrizione di una cucina, i primi valgono più delle seconde. I fantasmi del passato intessono queste pagine e divengono apparenze d'ectoplasma nel momento in cui un trasferimento di casa del sacerdote porta a una dimora in cui «ci si vede e ci si sente», dove accadono cioè fenomeni misteriosi collegati con il soprannaturale. L'ultima pagina del libro stabilisce come «in conclusi» tutti i personaggi della accidentata saga familiare, mentre gli anni dell'infanzia precipitano verso l'internamento del severissimo collegio religioso per damine di buona famiglia, in cui trascorrerà gli anni seguenti e di cui dà conto nel notevolissimo Le ore, analitica «cronaca della vita apparente» uscita da Scheiwiller nel 1986 e da Adelphi nel 1994.
Se questo libro, riedito in una versione più completa da Mondadori nel 1997, è stato analizzato a più riprese, diverso è il caso del meno noto Campane a Sangiocondo. Anche questo volume ha avuto una storia editoriale accidentatissima; nel 1948, più volte manipolato nel corso del tempo, con il titolo Nel paese delle campane ebbe un riconoscimento al Premio Prato, guidato da una giuria di cui facevano parte Alberto Moravia e Pietro Pancrazi. Questo non produsse una pubblicazione immediata e solo per volontà dell'autrice il volume vide la luce presso Campana nel 1963, in una edizione scorretta, che Dolores Prato preferiva sostituire con il proprio dattiloscritto (sotto il nome di Rosa muscosa), in una girandola di possibilità testuali. Al centro del libro, che torna per scorcio a paesaggi noti, c'è la figura di Don Pacifico, sacerdote vivacissimo, che deve affrontare il furto del tesoro della Madonna, nel racconto brillante di una Italia piccola, che ha qualche rimando con il mondo di Guareschi (anche se, come la curatrice nota, il primo volume della saga di Don Camillo non ha esercitato influenze). In questo caso, pur tornando a luoghi e paesaggi già noti, maggiore è il peso dell'intreccio, più distesa la narrazione, mentre permane la relazione fortissima, eppure sempre complessa, col dialetto, lingua di appartenenza e di rigetto.
Dopo i pionieristici interventi del germanista Giorgio Zampa (1928 2008), che fu a lungo paladino dell'autrice, molteplici sono ormai le voci critiche disponibili, come anche le ricerche sulla biografia. Stefania Severi, già autrice di una biografia (L'essenza della solitudine, Roma, Sovera, 2002), ha da poco pubblicato i carteggi sotto il titolo Voce fuori coro (Lavoro editoriale, 2007); Angela Paparella ha ricostruito la vicenda di Giù la piazza non c'è nessuno (Aracne, 2007); la stessa Noemi Paolini Giachery ha firmato la monografia Le mani tese di Dolores Prato (Graphio, 2008); Monica Farnetti infine ha dedicato un bel capitolo a Treia ne Il centro della cattedrale. I ricordi di infanzia nella letteratura femminile (Tre Lune, 2002). Ora torna la possibilità di un confronto con una delle voci peculiari del panorama novecentesco italiano, in piena luce nella mole del suo libro autobiografico, eppure sempre sospesa tra una spietata ricerca di chiarezza e la coscienza di uno scacco.

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