Recensioni / Tracce di Ranchetti

In una bella intervista autobiografica[1] realizzata nel 2005, Michele Ranchetti (scomparso il 2 febbraio 2008) parla dei suoi scritti come di un insieme «senza capo né coda»; e poi, in chiusa, accennando alla sua produzione di poeta[2], ne mette in rilievo il carattere di esperimento privato, senza un alveo di riferimento, allotrio (e quasi spurio) rispetto al contesto in cui si trova e nel quale, perciò, è destinato a non lasciare traccia. Del resto, aggiunge Ranchetti, come può lasciare delle tracce «chi non è, lui stesso, una traccia?»

In queste dichiarazioni si potrebbe soltanto leggere una forma di understatement, in linea con altre posture che occorrono nelle poche occasioni in cui questo intellettuale davvero poliedrico[3] parla di sé: un’attenuazione e un naturale riserbo che non sono solo dell’individuo, ma fanno parte di una cultura, della formazione propria di quel che un tempo si sarebbe definita la “classe” di appartenenza. Tuttavia, è un fatto che la posizione di outsider di Ranchetti trova riscontro in numerosi elementi della sua attività (in primis l’orizzonte cosmopolita di questa), e non meraviglia perciò il tratto ostile che è dato avvertire non tanto nelle repliche esplicite ai suoi lavori, quanto nel silenzio che più spesso li ha accolti, e in cui si manifesta un “fin de non recevoir” per le provocazioni di un dilettante, sorta d’incursore che invade i campi degli “addetti”, siano essi gli autorizzati esegeti della Chiesa e dei suoi testi, filosofi specializzati nell’ermeneutica di Wittgenstein o Heidegger, oppure il plotone dei freudiani autonominatisi ortodossi (questi ultimi tra i più ringhiosi, essendo casta non solo accademica ma professionale). Si sa che nella diffidenza e nel gesto che tiene a distanza, sprezzandolo, il “dilettante” è implicito il timore di vedere insidiata una auctoritas alla cui costruzione non è estranea l’autocensura né l’umiliazione propria di chi, per esercitare un qualche potere, ha dovuto a sua volta inchinarsi ai potenti: il che, per l’appunto, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla personalità di Ranchetti. In conclusione allo scritto che introduce la raccolta di saggi Non c’è più religione (del 2003) si legge: «… Di fronte a queste autorità religiose e civili l’unica virtù che può forse recuperare un senso religioso alla vita, se mai un senso religioso fosse necessario, e non è affatto detto, è la disobbedienza “cieca e assoluta” perinde ac cadaver. Letteralmente.[4]».

Letteralmente: infatti la disobbedienza di Ranchetti è stata radicale ed esercitata fino alla fine dei suoi giorni. Ma sarà vero che il suo lavoro è senza capo né coda, e destinato a non lasciar traccia?

L’apparente disorganicità ed eterogeneità dell’opera di Ranchetti, il suo disperdersi per innumerevoli direttrici senza perseguire un termine di sintesi, hanno a che fare, da una parte, con un pensiero sempre in movimento, in cui tende a prevalere il momento demistificante nei confronti delle idées reçues e che privilegia come forma espressiva il frammento; dall’altra, e in prospettiva dialettica, con un atteggiamento intellettuale e critico che non evita affatto di confrontarsi con i grandi temi di fondo, anzi con i fondamenti stessi della cultura del proprio tempo. L’uno e l’altro aspetto del suo operare sono ben testimoniati dall’edizione degli Scritti diversi, curata da Fabio Milana e pubblicata tra il 1999 e il 2000[5]; ma se questi costituiscono l’espressione per così dire diretta della molteplice ricerca di Ranchetti, che preferisce intervenire con brevi sortite dall’ombra, e quasi a margine (non di rado polemicamente) ad altrui proposte, è forse nella sua attività di “editore” che si scorge meglio quell’orizzonte aperto, totalizzante, cosmopolita a cui accennavo ora. Mi riferisco, naturalmente, al contributo – decisivo ben più di quanto risulti “ufficialmente” – alle Opere di Freud edite da Boringhieri, all’attenzione costante per Wittgenstein, che pure mirava alla ricostruzione di una opera omnia svincolata dalle forzature degli allievi, nonché alla magistrale curatela (insieme a Gianfranco Bonola) di Sul concetto di storia di Walter Benjamin[6], forse il suo capolavoro in quest’ambito; ma anche ad altro.

C’è un’altra impresa da ricordare (almeno), purtroppo interrotta dalla morte: la collana “Verbarium” (edita da Quodlibet), che tra il 2007 ed oggi ha visto la pubblicazione di nove titoli, tutti di primissimo ordine, per realizzare i quali Ranchetti aveva convocato i collaboratori (ed amici) più fidati. Ecco il catalogo: Ludwig Wittgenstein, Lecture on Ethics, eds. Edoardo Zamuner, E. Valentina Di Lascio, David Levy, with notes by Ilse Somavilla (2007); Terrore al servizio di dio. La Guida spirituale degli attentatori dell’11 settembre 2001, a cura di Hans G. Kippenberg e Tilman Seidensticker, ed. it. a cura di Pier Cesare Bori (2007); Marcello Massenzio, La Passione secondo l’Ebreo errante, prefazione di Michele Ranchetti (2007); Francesco Nappo, Poesie (1979-2007), introd. di Giorgio Agamben (2007); Renato Solmi, Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004 (2007); Michele Ranchetti, Poesie ultime e prime (2008); Stefano Mistura, La pazienza e l’imperfezione. Scritti 1969-2006 (2008); Ivan Illich, Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità, a cura di Fabio Milana (2009); Step by Step. Contemporary Yiddish Poetry, eds. Elissa Bemporad e Margherita Pascucci (2009).

Numerosi altri libri aveva programmato Ranchetti, ma già questa lista di uscite rende conto dello spessore della collana. Vi ritroviamo, come in una mappa e insieme una genealogia in atto, predilezioni, curiosità e orientamenti del curatore – la psicanalisi, la storia della religione, la poesia, la filosofia – e il segno di un’attenzione al presente che mobilita ingegni tanto rigorosi, quanto appartati: si colloca in questo quadro, di filologia ed ermeneutica applicate esemplarmente all’attualità, la versione italiana della Guida spirituale degli attentatori dell’11 settembre, che nelle mani di Pier Cesare Bori supera, per resa del testo e qualità complessiva, le corrispondenti edizioni tedesca e inglese. Ed accanto a Wittgenstein troviamo un altro libro straordinario: l’Autobiografia documentaria di Renato Solmi (compagno di scuola e amico per tutta la vita di Ranchetti), che restituisce la dimensione che spetta a questo intellettuale di assoluto spicco nel nostro Novecento, e non solo per il lavoro di traduttore e interprete di Benjamin, Adorno e Marcuse (e tanti altri), ma per le pagine dedicate ai movimenti pacifisti in America, ai problemi della scuola e dell’editoria. D’altro canto, per tornare al presente, la collana offre altresì l’occasione per scoprire un poeta autentico come Francesco Nappo; mentre è un vero testamento il libro che Cayley ha realizzato montando i brani di una sua lunga intervista a Ivan Illich, altro maestro il cui pensiero è in più punti solidale a quello di Ranchetti (in particolare nei confronti del ruolo negativo svolto dalla Chiesa nel “pervertimento”, come recita il titolo, del Cristianesimo).

A chi passi in rassegna le collane dei sommi – si fa per dire - editori italiani, una che sappia stare all’altezza di “Verbarium” sarà difficile trovarla. Quest’impresa solitaria vuole anche essere, infatti, una sfida, e insieme una risposta alla débâcle dell’editoria in quanto progetto culturale. Finanziata grazie al lascito di Peter Yankl Conzen[7], persino nella scelta della carta e dei caratteri si allontana, intenzionalmente, dagli standard correnti; ma soprattutto, essa si offre al lettore come una preziosa lezione di libertà intellettuale: è ancora possibile, tra passato e presente, disseminare tracce di un sapere (e di un tempo) diverso, non arreso al peggio che ci circonda.

Nell’Introduzione al Benjamin di Sul concetto di storia c’è un passo che lascia affiorare il senso del lavoro di Ranchetti, di cui “Verbarium” è l’esempio estremo: egli qui scriveva che la riproposizione delle “tesi” dello scrittore tedesco si fondava, per lui, nel presupposto che esse «suggerissero ancora intatta la necessità di una presa di coscienza che dia un senso all’accadere o al precipitare degli eventi e sappia riconoscere quel segno che, come per Benjamin, può indicare la presenza di un significato.[8]» Non diversamente, le tracce che la sua collana interrotta ci consegna stanno a indicare, con sobria eleganza, una costellazione da non perdere di vista mentre c’inoltriamo, sempre più, «in tempi in cui l’accelerazione dei mutamenti storici sembra produrre una deriva incapace di ogni interrogazione su qualsiasi ragione presieda la vita dei singoli.[9]»



[1] Rifiuto d’ordine a profitto del contesto. Michele Ranchetti si racconta (Firenze, 23 ottobre 2005), a cura dell’Associazione Michele Ranchetti, 2009. Il dvd sarà diffuso in allegato a «una città» ed all’ultimo volume degli scritti di Ranchetti (Edizioni di storia e letteratura) nel secondo anniversario della morte (febbraio 2010).

[2] Sono due le raccolte pubblicate in vita: La mente musicale, Milano, Garzanti, 1988, e Verbale (ivi, 2001); ed una postuma: Poesie ultime e prime, Macerata, Quodlibet, 2008.

[3] Significativo al riguardo il Festschrift Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti raccolti da Bruna Bocchini Camaiani e Anna Scattigno, Macerata, Quodlibet, 1998.

[4] M. Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento, Milano, Garzanti, 2003, p. 14.

[5] M. Ranchetti, Scritti diversi. I Etica del testo, Roma Edizioni di storia e letteratura, 1999 (si veda qui la bella Presentazione di Milana); Id., Scritti diversi. II Chiesa cattolica ed esperienza religiosa, ivi, 1999; id., Scritti diversi. III Lo spettro della psicanalisi, ivi, 2000. In precedenza Ranchetti aveva pubblicato (curatele e traduzioni escluse) Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo, Torino, Einaudi, 1963 (trad. inglese Oxford University Press, 1968), e Gli “ultimi preti”. Figure del cattolicesimo contemporaneo, San Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della pace, 1997. Una bibliografia essenziale degli scritti a cura di F. Milana è alle pp. 445-448 di Anima e paura cit. (in attesa di quella integrale e aggiornata per le Edizioni di storia e letteratura, prevista per l’inizio del 2010).

[6] W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997.

[7] Informa la nota in appendice ai libri: «egli era un fotografo, un disegnatore e uno scrittore. Ha viaggiato per tutta la vita, ritraendo l’umanità nascosta e dimenticata. Era un grande conoscitore dell’ebraico e dello yiddish, in cui ha scritto un romanzo e alcune poesie.»

[8] M. Ranchetti, Introduzione a W.Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. X (e vedi Walter Benjamin prima della fine, in Scritti diversi. I cit., p. 240).

[9] Ibidem.