Learco Ferrari, l’alter ego protagonista dei primi romanzi di Nori, faceva il magazziniere e il traduttore: traduzioni tecniche, dal russo. Il conteggio delle pagine tradotte in relazione a bollette e spese domestiche ricordava l’ossessività degli stessi calcoli fatti in la Vita Agra da Luciano Bianciardi, intellettuale ‘non organico’, salde radici nell’anarchia. L’autore di questi Pubblici discorsi ha fatto un passo avanti: adesso deve riempire le pagine fissate dagli organizzatori per prolusioni su temi molto ufficiali come il rapporto tra storia e letteratura, la traduzione, la letteratura italiana contemporanea. Cronicamente impreparato, l’oratore preferisce le vie traverse: digressioni, aneddoti («c’era un mio amico»), lunghe citazioni parola per parola di passi di Malerba, Danijl Charms (già proposto da Nori nei panni di slavista in un’edizione einaudiana) con altri russi fuori dal canone, ma anche dei propri libri. Per fare carta servono anche un’aria di Metastasio, liste di nomi, conteggi (quanta gente lascia la sala durante la lettura), le continue gags («Zavattini, come Correggio non era di Parma, era di Luzzara. Il Luzzara, l’avrebbero chiamato probabilmente se fosse nato nel sedicesimo secolo»). Regna la legge del minimo sforzo, Oblomov con però una vena di anarchia. Si tratta di riempire pagine a credito per il proprio sostentamento ai minimi termini di natura, fine urgente dell’intellettuale ‘non specializzato’ e non particolarmente in carriera (sembra, per scelta), non investito di compiti particolari se non quello di tenere questi strampalati discorsi. Il tutto con un disordinato amore del prossimo nei panni del lettore/ascoltatore avvolto da una teatrale empatia e sollecitato da un impasto allocutivo stralunato che ha attirato a Nori una serie di critiche riassunte così: «ogni tanto c’è della gente che quando escono i miei libri scrive che io sono una persona coltissima che fa finta di esser un semicolto». Naturalmente «si sbagliano», come dice Nori rivendicando la propria ignoranza, ma bisogna essere più espliciti considerando questa per quello che è secondo i canoni del mestiere. La letteratura italiana contemporanea è infatti piena di tentativi variamente riusciti di risolvere il problema del punto di vista mettendo al centro del racconto personaggi ‘non sapienti’: i bambini ambiguamente innocenti di Ammaniti, Scurati, Vasta, Vinci, ma anche i ‘deficienti’ postmoderni di Aldo Nove e Tommaso Pincio. Nori, monologando, lo fa servendosi della maschera celatiana dell’idiota, il Celati sulle orme di Céline e studioso del tipo folklorico e letterario del fool. È una linea che ha conosciuto un successo regionale emiliano (Cavazzoni, Benati) e che rinasce in Nori con nuove energie. Il conferenziere indossa i vestiti di scena del fool e diventa l’emblema stesso dell’intellettuale ‘non specializzato’, non trasmette opinioni ma esperienze. Emblematico in tal senso è il rapporto con la letteratura russa fatto di lunghi soggiorni in una Russia in transizione (ne esce, per esempio, una bella rilettura di Anna Karenina). Sul piano della lingua, secondo il dettame celatiano, si pesca nell’oralità portando sulla pagina strafalcioni di ortografia: «ciò» (‘c’ho’), «mammano» (‘mano a mano’), ma anche di lessico: «mia nonna quando parlava in italiano certe parole strane come boiler, per dire, lei lo chiamava il bolide, o certe espressioni, quando passava un’ambulanza lei diceva che era passata un’ambulanza a sirene spietate». Non si crederà solo a una spinta naturalistica («la vera lingua inventata, è l’italiano letterario, che è un posto stranissimo, un posto dove non si scopa, si fa sesso, un posto dove non tira il vento, si alza un mite grecale»). Il repertorio del banale è invece esplorato per moltiplicare gli effetti di eccentricità: «penso che Charms sia uno degli autori che mi ha influenzato di più, come si dice con un’espressione forse abusata ma mai abusata come l’espressione Espressione forse abusata». Che non sia un uso ‘guitto’ della prosa è provato da come il triviale vada insieme a figure di bravura: una serie di proverbi rifritti si accompagna ad un uso a incastro del discorso indiretto («La vita è fatta a scale c’è chi scende c’è chi sale, come dice Spinoza, diceva il protagonista»), tipico, questo, di un Thomas Bernhard. L’aderenza di scritto e parlato è tutto e la prosa un insieme di voci per il romanzo, «una valigia piena di trucchi, come dice Brodskij», dice Nori.