Curioso destino quello di Dolores Prato che oramai da quasi trent’anni si propone come un “caso” letterario destinato a suscitare scalpore, proposta di volta in volta da “padrini” autorevoli e ogni volta rapidamente archiviata tra autorevoli giudizi, se non osannanti, certo lusinghieri e positivi. L’autrice scoprì tardi la propria vocazione letteraria, comunque dopo i cinquant’anni vissuti in un isolamento umano e sociale patito con autentica sofferenza.
La Prato, infatti, figlia adulterina solo tardivamente riconosciuta dalla madre, nacque nel 1892 e fu allevata da due zii, uno dei quali sacerdote, che, pur generosi, non riuscirono a darle il calore degli affetti familiari. Lei, comunque, compì studi regolari fino alla laurea al Magistero di Roma e poi divenne insegnante durante gli anni Venti, fino a quando, ribelle al fascismo, si trasferì a Milano intrecciando una relazione con un avvocato militante comunista clandestino.
Solo nel dopoguerra si ha notizia di una produzione narrativa che si arricchisce negli anni conquistando segnalazioni e successi in qualche premio letterario, tuttavia senza seguito editoriale, salvo qualche pubblicazione a proprie spese rimasta ovviamente senza eco. Solo nell’80, dopo una lunga gestazione editoriale, uscirà da Einuadi con l’autrice quasi novantenne, una versione drasticamente ridotta dalle forbici di Natalia Ginzburg di Giù la piazza non c’è nessuno, che ancora oggi è considerato il suo capolavoro e verrà ripubblicato integrale (760 pagine), a cura du Giorgio Zampa, da Mondadori nel 1997. Dopo alcune plaquettes di Vanni Scheiwiller, nel ’94 sarà Adelphi a pubblicare Le ore, ideale seguito del primo e maggiore racconto autobiografico. La critica si esprimerà con entusiasmo, che non basterà ad accendere la curiosità dei lettori: Lalla Romano e Giovanni Raboni, Ermanno Paccagnini – su questo «Domenicale» – e Angelo Guglielmi, Carlo Bo e Alfredo Giuliani segnaleranno autorevolmente la scoperta di un’audace scrittrice ossessivamente autobiografica, dotata di un insolito linguaggio, ricco di espressività “dialettale”, capace di evocare l’universo perduto della provincia a fine Ottocento.
Quest’anno, dopo alcuni solidi studi di Angela Paparella, Stefania Severi, Monica Farnetti e Noemi Paolini Giachery, che ne hanno pazientemente ricostruito la vicenda biografica e i rapporti epistolari offrendo anche analitiche interpretazioni dei testi conosciuti, sono apparsi contemporaneamente l’edizione integrale del romanzo Campane a San Giocondo, primissima testimonianza della sua vena narrativa, e una nuova edizione di Giù la piazza non c’è nessuno, già ristampata dopo pochi mesi, che hanno costretto i lettori a un confronto meno frettoloso con un’opera davvero insolita nel panorama novecentesco.
Per un verso si è convenuto con Zampa sulla natura lirico-evocativa di una prosa renitente all’intreccio e invece «vivida, filante, aderente ai fatti» e alle cose, che appunto sembrano frutto delle stesse parole capaci di far vivere la realtà del piccolo centro provinciale in tutta la sua complessa evidenza.
Mistero della sorte è arrivato finalmente il tempo di Dolores Prato. Certo il disagio crescente di fronte al panorama novecentesco come viene proposto dal canone intanto affermatosi allarga smisuratamente l’attenzione per ogni sorta di eccentrici e irregolari, e la Prato tra questi si distingue con una personalità non prevedibile.