Il sapere storico e quello spaziale dialogano in due opere recenti: L'Atante delle letteratura tedesca, curato per Quodlibet da Francesco Fiorentino e Giovanni Sampaolo e Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica di Kurt Schlögel per Bruno Mondadori
Tra le discipline umanistiche sorge, di tanto in tanto, un sapere privilegiato, dal quale ci si attendono risposte speciali e che sembra porsi, per un tempo più o meno lungo, alla testa delle ricerche nei settori più svariati. La linguistica ha ricoperto questo ruolo per una ventina di anni, all'incirca tra il 1960 e il 1980, quando pareva che attraverso nozioni come quelle di lingua e parola, diacronia e sincronia, sintagma e paradigma potesse spiegarsi la più grande quantità di fenomeni. Da qualche tempo, invece, si moltiplicano i segnali di un'irresistibile (e fino a qualche anno fa del tutto imprevedibile) ascesa della geografia. Una delle spiegazioni che sono state offerte di questo fenomeno è il rapido tracollo dello storicismo novecentesco e dell'idea di progresso dopo gli eventi del 1989. Entrata in crisi l'idea che le vicende umane puntino in una direzione precisa e che posseggano un senso chiaramente intelleggibile, caduta ogni tensione verso un mutamento radicale della società, il pensiero geografico offrirebbe l'illusione di poter descrivere il passato come territorio chiuso, separato una volta per tutte dal presente e soprattutto dal futuro, con le sue tensioni utopiche e la speranza che un giorno si celebri un processo di appello contro i vincitori di ieri e di oggi. Secondo questa lettura, la vittoria del sapere geografico sarebbe dunque la principale incarnazione dello spirito del nostro tempo e sancirebbe la trasformazione dei battaglieri intellettuali novecenteschi in un esercito di diligenti catalogatori del mondo che fu.
Il dialogo con la storia
Ci sono molti buoni motivi per respingere questa interpretazione. Il primo e forse il più importante è che la svolta del pensiero in chiave spaziale ha caratterizzato gran parte del marxismo del secondo Novecento, da Althusser a Jameson, dai situazionisti a Kevin Lynch, con la sua teorizzazione del cognitive mapping proprio come tentativo di reagire a una paralisi della percezione legata alle nuove realtà spazio-temporali del mondo contemporaneo. Le ragioni del ritorno al sapere geografico dipendono anzi, probabilmente, proprio da questa necessità di ritrovare una bussola nel momento stesso in cui alcune certezze tradizionali sono messe in crisi dagli sviluppi più recenti della tecnologia (dove è esattemente il cyberspazio?). Inoltre, in una cultura sempre più dominata dagli elementi visuali come la nostra non è inverosimile che il sapere geografico si avvantaggi della forza - concettuale ma anche mnemonica - della cartografia e della capacità di una buona mappa di organizzare un gran numero di dati in forma sintetica e coerente.
Non è necessario però immaginare la geografia slegata dalla dimensione temporale. Si direbbe anzi che il sapere spaziale dia il meglio di sé quando riesce a dialogare con la storia, come avviene in due opere recenti e altamente meritorie: l'Atlante della letteratura tedesca curato da Francesco Fiorentino e Giovanni Sampaolo (Quodlibet, pp. 634, euro 42,00) e Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica di Kurt Schlögel (Bruno Mondadori, pp. 308, euro 24,00). Si tratta di due volumi diversissimi, ma legati da alcuni elementi in comune: il primo, realizzato dal meglio della germanistica nostrana, ricostruisce una storia della cultura tedesca attraverso una serie di località, reali, trasfigurate letterariamente o del tutto immaginarie (le voci vanno da Shtel a Statsbibliothek e da Weimar a Marte); mentre il secondo offre una serie di assaggi dei modi con cui uno storico della cultura può lavorare con lo spazio, dall'impiego di alcune fonti speciali (stradari, elenchi del telefono, cartine...) alle domande che nascono dall'analisi del rapporto degli individui con un particolare ambiente (il lager, la biblioteca, la camera da letto...).
Il primo elemento da prendere in considerazione è la matrice tedesca dei due lavori. Da Braudel e Fevre in poi, nel Novecento il nesso tra storia e geografia è stato caratteristico della scuola storica francese, con la sua vocazione a privilegiare il territorio persino nella sua immobilità secolare rispetto alla grande variabilità degli eventi che superficialmente lo hanno attraversato e che, spesso, non sarebbero anzi che una sua diretta conseguenza. Lo spostamento della più avanzata riflessione geografica verso la Germania non è però casuale e si spiega con ogni probabilità con l'influsso della figura di Walter Benjamin, che, con le sue riflessioni sul flâneur, sulla Berlino della sua infanzia e sulla Parigi capitale del XIX secolo, occupa in tutti e due i libri il posto di nume tutelare, offrendo la legittimazione di una geografia discontinua e spesso non oggettiva, aperta ai territori del desiderio e della memoria, in linea con una concezione frammentaria dello spazio del tutto analoga a quella teorizzata per il tempo nelle Tesi di filosofia della storia.
Lungo le strade dell'anima
Questa lezione benjaminia può essere declinata però in modi molto diversi. Forse, oggi, la grande questione negli studi che si ispirano alla geografia ruota attorno alla possibilità (e all'eventuale utilità) di mappare, magari anche con l'ausilio di cartine, non solo gli spazi reali nei quali si sono mossi scrittori, filosofi e uomini comuni ma anche i mondi di fantasia e le regioni dello spirito. Lungo questa strada, ovviamente, il rischio è quello di partire con Alexander von Humbolt e di ritrovarsi con la carte du tendre di Madame de Scudery (ma c'è anche chi ha rivendicato questa scelta, come Giuliana Bruno nel suo ambiziosissimo e probabilmente irrisolto Atlante delle emozioni). Anche per questo, forse, sia Schölegel sia Fiorentino e Sampaolo sembrano aver preferito una soluzione più prudente, che nel caso di questi ultimi vuol dire sostanzialmente limitare alla parte scritta i saggi sulla geografia immaginaria, riservando agli spazi reali la graficizzazione cartografica.
Siamo dunque sul versante opposto di quello a suo tempo praticato da Franco Moretti, forse lo studioso che negli ultimi anni ha scommesso di più sulla possibilità di rifondare gli studi letterari sull'incontro con la geografia, in una serie di libri di grande successo ma anche vivamente contestati come L'Atlante del romanzo europeo e La letteratura vista da lontano. Il procedimento di seguire gli spostamenti dei personaggi dei libri di finzione con l'ausilio di cartine e diagrammi non è nuovo ma nessuno se ne è mai servito con altrettanta sistematicità. Anche volendo prescindere dal caso in tutti i sensi eccezionale della Commedia dantesca, gli esempi non mancano, dalla mappa dell'immaginario Wessex di Thomas Hardy, pubblicato all'inizio del secolo scorso da un amico del romanziere inglese, Bertram Windle, alla minuziosa cartina della casa del dottor Jeckyll su cui Nabokov ha fondato per intero la propria interpretazione del libro di Stevenson.Moretti si inscrive in questa tradizione prestigiosa, ma collocando i diversi personaggi negli spazi reali dove i grandi romanzieri (realisti) dell'Ottocento ambientano le loro storie, a differenza di coloro che ricostruivano lo spazio della Commedia o le peregrinazioni di Tess dei d'Urbervilles unicamente dai dati interni al testo, non esita a incrociare due serie di dati che si somigliano ma che non necessariamente coincidono, con il rischio di commettere un'indebita contaminazione.
Una inedita centralità
Una ventina di anni fa Umberto Eco ha costruito la sua teoria del lettore ideale - vale a dire del lettore in vista del quale un testo viene composto - mostrando gli errori topografici di Alexandre Dumas ed evidenziando come, ai fini della lettura, essi non creassero alcun problema, dal momento che per rendersene conto era necessario disporre di conoscenze specialistiche sui nomi delle strade di Parigi nel Seicento, conoscenze che il pubblico dei Tre moschettieri di sicuro non possedeva. Il romanzo, anche quello che cerca di offrire al lettore il più compiuto «effetto di realtà», costruisce uno spazio che coincide sempre solo in parte con quello del nostro mondo. C'è il pericolo insomma che, a voler collocare Fréderic Moreau nella Parigi del 1848 o Renzo Tramaglino su una pianta della Milano del XVII secolo, si finisca per confondere - illegittimamente - il piano della finzione con il piano della realtà. Ci sono buone ragioni per credere che la scelta dell'Atlante di Fiorentino e Sampaolo risulti non solo meno azzardata ma anche più condivisibile. E tuttavia le divergenze tra gli studiosi sui diversi modi di servirsi della geografia e della cartografia sono solo una ulteriore conferma della sorprendente centralità che queste discipline stanno occupando nella riflessione contemporanea.