Recensioni / La sintassi come facoltà dell'anima

«Strettoie» un saggio su Szondi e la letteratura   Christoph König ha ricostruito la biografia intellettuale di Peter Szondi (1929-71): le precoci intuizioni scolastiche, L'amicizia con Celan, il rapporto con l’ebraismo, la sua ermeneutica anti-heideggenana

«La sintassi è una facoltà dell’anima» Su quest’idea di Paul Valery ha lavorato a lungo una delle più potenti intelligenze critiche del secondo Novecento europeo: Peter Szondi. Valery, insieme a Proust, è una delle sue passioni intramontabili, Già nel 1959, a soli trent’anni, cura e traduce, per la casa editrice Insel, una scelta di testi da «Tel Quel» I (1941) e da «Tel Quel» 11 (1942): il libro si intitolerà Wìndstriche, strisce di vento. Adorno, che riceve l’impaginato prima della stampa mentre è in ferie a Baden Baden, ne rimane letteralmente inebriato. Scriverà a Fritz Arnold, committente del volume per la casa editrice: «da anni nessuna lettura mi aveva colpito tanto, fino nell’intimo». Una felice occasione per ripercorrere questi e molti altri aneddoti dell’itinerario critico di Szondi la offre il bel saggio di Christoph Köning, da poco tradotto per Quodlibet: Strettoie Peter Szondi e la letteratura (pp. 128, € 16,00). II volume ne ricostruisce la biografia intellettuale alternando l'esposizione dei nuclei teorici del suo pensiero a passi di lettere, incontri personali, conversazioni, lezioni universitarie. Alcune belle fotografie - con lo stesso titolo Köning ha curato nel 2004 a Marbach una mostra dedicata a Szondi -, un'utile biografia e un’ottima bibliografia ragionata completano il volume.

I primi capitoli ricostruiscono la formazione di Szondi e i nuclei centrali dei suoi saggi più celebri: Teoria del dramma moderno e Saggio sul tragico. Negli ultimi due, invece, Köning ripercorre l’amicizia con Celan e il modo particolare con cui Szondi ha vissuto il suo rapporto con l’ebraismo e con il suo ruolo di professore di letteratura comparata alla Freie Universitàt di Berlino. Un aneddoto illumina molto bene entrambi: quando, nel 1965, Hilde Domin lo invita a parlare di Celan, in uno dei suoi famosi incontri pubblici, Szondi rifiuta. «Non posso entrare in una comunità di persone che sul passato nazista di Sieburg hanno da dire impudenti solo un “mah, insomma”» (p. 74). La Domin gli scriverà che per lei essere ebrea ed essere stata perseguitata è ormai solo una condizione esistenziale che per altro la rende simile a ogni altro essere umano perseguitato nella storia. Szondi la ammonisce. È un modo per non fare i conti con il proprio passato. «Siamo tutti sopravvissuti e ognuno cerca a suo modo di redimersi da questa onta». Dell’anno prima è una sua lettera aperta pubblicata sulla Frankfurter Aligemeine Zeitung. L'articolo è scritto contro una recensione di Holthusen, eminente e potente germanista, alla raccolta La rosa di nessuno sempre dell’amico Celan. L’attacco colpisce il tentativo del critico tedesco di nascondere il proprio passato nazista attraverso una lettura che rende metaforico il verso «mulini a vento della morte» quanto è all’opposto un riferimento puntuale ai mulini di Auschwitz. Szondi non è ancora stato assunto da nessuna università e queste prese di posizione nette possono compromettere la sua carriera. Ma poco gli importa. Adorno, che lo aveva messo in guardia, invano cercherà di farlo diventare professore a Francoforte. Pochi mesi dopo, però, sarà la Freie Universität dove si trovano i più importanti filosofi e teorici del secondo Novecento: da Starobinski a Jauss, da Bourdieu a Paul de Man, dallo stesso Adorno a Derrida fino a Gershom Scholem e a René Wellek. Il libro di Köning ricostruisce i punti centrali del metodo analitico di Szondi: l’ermeneutica. La domanda a cui cerca risposte è oltremodo complicata. Come si scioglie, in estetica, l’enigma degli enigmi, il rapporto fra forma e contenuto? Non certo seguendo la linea Heidegger/Gadamer, allora egemone. Né tantomeno l’esuberanza iconoclasta del decostruzionismo francese, allora ai primi passi ed egemone oggi. L’enigma resta quanto meno sospeso al livello in cui l’ha pensato Hegel. «Le vere opere d’arte sono quelle in cui forma e contenuto si dimostrano affatto identitici». Eppure quest’identità è stata ottenuta, è risultato di un procedimento, è l’esito di un lavoro di un soggetto. Questo significa che chiunque voglia studiare l’arte per capire qualcosa della vita dovrà guardare a un quadro, a una rappresentazione teatrale, a un romanzo non come a un esemplare astratto, ma come a un individuo. Dovrà cercare una forma analitica capace di non aggredire la soggettività che quel testo protegge, ma di conoscerla. Di qui il rifiuto di Szondi per tutte le forme astratte di umanesimo. Fin da ragazzo, infatti, non lo aveva per niente persuaso l’umanesimo biologico né il classicismo astratto insegnatogli nel liceo cantonale di Trogen, vicino a Zurigo. Köning riporta un bellissimo commento, scritto da Szondi adolescente, per un’esercitazione scolastica su alcuni versi di Goethe: «se vuoi costruirti una vita serena/ per il passato non devi darti pena/ e se anche avessi perduto qualcosa/ atteggiati come se tu fossi rinato». Per respingere l’idea di persona che questi versi propongono il giovane Peter inventerà un breve racconto. La storia è quella di un produttore di conserve jugoslavo che nel 1944 sarà costretto ad assistere, impotente, alla scena dei suoi genitori e fratelli gettati nel Danubio. «Specialmente quelli che non hanno conosciuto nella loro vita questo problema possono apprezzare la regola di Goethe. Coloro che devono lottare, infatti, sanno già per esperienza che qualche parola non può salvarli» (p. 37).

La sua prima pubblicazione, già studente alla facoltà di germanistica, sarà un articolo di critica teatrale per Les mains sales di Sartre, visto al teatro di prosa am Pfauen di Zurigo. Parteggerà per lui nella celebre contesa contro Heidegger e la sua Lettera sull’umanisino. Per Szondi, infatti, il pensiero del filosofo tedesco è semplicemente inumano proprio perché nel suo orizzonte teorico mancano gli uomini, la storia incancellabile del loro dolore; e la possibilità di un futuro diverso. Molti anni dopo, sempre contro Heiddeger, leggerà Hölderlin Nei suoi testi non cercherà mai un patetico ritorno all’Essere originario. Piuttosto, la necessaria apriorità dell'individuale sul Tutto. Sempre si considererà un allievo teorico di Adorno: la sua tesi di dottorato, che, ampliata, diventerà nell'ottobre del 1955 Teoria del dramma moderno, il suo saggio più celebre, è impensabile senza la lettura appassionata di Filosofia della musica moderna. König racconta che Szondi, insieme all’amico Ivan Nagel, lesse il saggio di Adorno appena uscito, nel 1949, dopo un’attenta meditazione sul Doctor Faust di Thomas Mann. Per i due giovani universitari questi due testi non saranno semplici letture filosofiche o letterarie. Perché sono testi impregnati della catastrofe del nazismo e li costringono a cercare una risposta alla domanda: come è potuto accadere?

Naturalmente l’altro autore fondamentale è questo, alla cui memoria è dedicata L’anima e le forme. Negli anni, tuttavia, l’autore a cui dedicherà più attenzione è Benjamin. Ne farà proprio l’insegnamento fondamentale: nell’arte è preciso non ciò che è conforme, ma ciò che è necessario. E nel 1964 terrà sulle Tesi di filosofia della stonoia sua lezione inaugurale a Berlino. Bellissima la conclusione: le speranze fino a oggi sempre disattese e la promessa di felicità, che ostinatamente pretendono, sono un’arca destinata a tutti contro la ripetizione insensata del dolore. «Destinata perfino a chi scambiò per fertile inondazione ciò che in realtà era il diluvio universale» (p.67).