Recensioni / 47 poesie in diretta

La Lingua incandescente e poliedrica del cubofuturtsta russo (1885-1922) va necessaratmente incorniciata nella versione iper-interpretativa che ne diede Ripellino net 1968. Qui la scelta è stata, all’opposto. di brava reticenza

C’è una novità che dovrebbe far felici tutti i cultori della ricerca poetica più estrema, dell’azzardo senza calcolo, dell’invenzione inclassificabile. Dopo quella curata da Angelo Maria Ripellino nel 1968, esce in italiano una nuova antologia di Velimir Chlebnikov, finnata da Paolo Nori, che ha escogitato un titolo davvero diabolico, 47 poesie facili e una difficile (Quodlibet, pp. 91, ? 9,50). Non ci viene detto, infatti, quale delle quarantotto poesie sia quella dal traduttore giudicata «difficile», e nascosta fra le altre come il Morto nel mazzo delle carte. A rigore, la difficoltà potrebbe annidarsi proprio nella finta innocenza della strofetta di cinque versi che Nori, nella postfazione, cita per contestare la fama dell’astrusità di Chlebnikov («Poco, mi serve./ Una crosta di pane,/ un ditale di latte,/ e questo cielo/ e queste nuvole»).
Ma prima di procedere oltre su questo sdruccioloso sentiero, bisognerebbe anche chiedersi se abbia un senso contrapporre il facile al difficile, invece di ammettere che la difficoltà del facile e la facilità del difficile sono i due fuochi della stessa ellisse, o se si preferisce la sistole e la diastole di ogni scrittura che possieda un reale valore.
Nori si è laureato in letteratura russa su Chlebnikov, e qualche anno fa gli ha dedicato un libro notevole, sospeso tra finzione e documentazione, intitolato Pancetta. Per questa scelta antologica, invece, ha imboccato la strada della reticenza, forse anche per non calcare le orme del suo illustre predecessore. Ripellino, infatti, aveva fatto precedere le sue traduzioni da cento dense e splendide pagine di ritratto del grande poeta, alle quali se ne aggiungono, in coda al volume, un’altra settantina di Congetture sui testi. Di più non si poteva fare, e l’edizione, dedicata a Roman Jakobsoni e ornata da uno splendido ritratto fotografico di Chiebnikov, figura giustamente nel catalogo Einaudi sotto il nome del curatore (Angelo Maria Ripeilino, Poesie di Chlebnikov, come poi, anni dopo, in seguito a un analogo prevalere del commento sul testo: Cesare Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli). A Nori interessa allestire un tipo di fruizione totalmente opposto. È vero che l'arte di Chlebnikov è talmente allusiva che i materiali per un commento adeguato provengono da intere biblioteche. Ma è altrettanto certo che, alla fine, quello che conta è il risultato, e questo si può godere nella sua nudità, come facevano i lettori degli anni venti imbattendosi in questi versi indimenticabili nelle pagine delle plaquettes, degli almanacchi, delle riviste. Nori si affida al potere della traduzione-come-interpretazione, e centra indimenticabili bersagli. «Mi sono visibili: il Cancro, l’Ariete,/ E il mondo è una conchiglia, appena,/ Nella quale è perla/ Quello di cui sono malato». E ancora, qualche verso più avanti: «Come vie lattee qua e là spuntano donne». Anche in una scelta ridotta come questa di Nori, salta agli occhi il carattere poliedrico di un talento che non si tira indietro di fronte a nessun tipo di esperimento, ed è capace di fondere nel suo crogiolo dizionari e cosmologie, utopie e tradizioni millenane, schegge incandescenti di lingua viva e visioni di fiaba.
Ma chi era Velimir Chlebnikov, questo poeta al quale i suoi compagni di strada, unanimi, attribuirono un ruolo di maestro e capofila? Come per Rimbaud o per Dino Campana, ogni tentativo di biografia sconfina facilmente nella leggenda, e nell’agiografia. Morto nel 1922, a trentasette anni, aveva studiato matematica e geometria sotto la guida di grandi maestri. Ma il rigore della profezia ben presto si sposò a quello necessario alle scienze esatte. Negli anni dopo la rivoluzione d’ottobre, visse come un vagabondo, alla maniera dei vecchi pellegrini che percorrevano la Russia con un bastone, la Bibbia e un pezzo di pane duro nella bisaccia. Poco, prima di morire, nel 1921, si spinse fino in Persia al seguito dell’Armata Rossa, e furono forse i mesi più felici della sua vita povera e senza fissa dimora Di tanto in tanto, lacero e affamato, gli occhi spiritati, riappariva a Mosca, lasciando un segno indelebile nei cenacoli futuristi e cubisti. Affidava ad altri la cura di pubblicare i suoi versi, e amava i refusi, gli errori di impaginazione. Era spesso vestito di stracci. Elaborò complicate teorie sulla lingua russa, come quella della parentela fra parole dotate della stessa sillaba iniziale. E in effetti lo scopo della sua poesia, secondo Mandel’stam, è quello di immergerci «nel folto degli ètimi russi, nella notte etimologica». A parere di molti testimoni, ricordati da Ripellino, la sua fisionomia ricordava un uccello. É Majakovskij, nel necrologio all’indomani della sua morte, a ricordare lo stato di insopprimibile disordine dell'esistenza di Chlebnikov e dell’opera che ne derivava. «La sua camera vuota era sempre stipata di quaderni, fogli e pezzi di carta, riaperti della sua minutissima grafia. Se per caso non era in preparazione una qualche raccolta e se taluno non tirava fuori dal mucchio qualche foglio già scritto, il viaggiatore Chlebnikov riempiva di manoscritti una federa e poi, in viaggio, dormiva su questo cuscino, e poi perdeva anche il cuscino». In lui «l’incuria», sempre Majakosvkij, «assumeva carattere d’autentica abnegazione, di martirio per l’idea poetica».
Cosa ci arriva, oggi e in traduzione, di quella specie di potente e irrimediabile sisma che fu l’opera di Chlebnikov? Forse ha ragione Nori: non è più il tempo dei commenti folti e delle lunghe introduzioni. Voltate le spalle all’inimitabile Ripellino, quella che ci conviene provare è un’esperienza il più possibile diretta. Ad apertura di pagina, noi percepiamo l’autentica grandezza poetica, materia infuocata e scintillante come brace, mai disgiunta dalla grandezza d’animo. Oltre ogni morale, ogni credo estetico, ogni assioma del pensiero astratto. Ma cosa c’è lì oltre? Il silenzio? La demenza? O parole come queste? «Gli anni, gli uomini e i popoli/ Vanno via per sempre,/ Come acqua corrente./ Nello specchio flessibile della natura/ Le stelle: rete, i pesci: noi,/ Gli dei: fantasmi e tenebra».
Quanta improntitudine è necessaria a rinnovare il vecchio adagio eracliteo, la saturnina consapevolezza che nulla è stabile, che il tempo non è che un’acqua che scorre. E lì, nel gorgo, ecco gli uomini, pesci catturati nella rete delle stelle. E su questo scenario solenne, degno del pastore errante di Leopardi, è scesa la tenebra, che è la vera sostanza, la vera natura degli dèi-fantasmi. Ma Chlebnikov è un profeta che ama più di tutto sconcertare il suo uditorio. Se imita alla perfezione gli aforismi memorabili e gli atteggianenti di Zarathustra, non dimentica mai d’essere uno Zarathustra russo: più che un veggente, un viaggiatore incantato, un guitto da fiera paesana, un pitocco che canta i suoi giochi di parole appollaiato sui tetti dei treni. Alla fine, nessuna definizione suona meglio di quella di Mandel’stam: «una specie di Einstein idiota». Uno di quegli individui, pare di capire ancora dopo tanto tempo, attraverso i quali l’umanità sembra trascendere se stessa, attingendo un grado inedito di genio e carisma, senza mai smettere però di deridersi, di mostrare gli stracci del mendicante sotto i paramenti regali. «Oggi io vado ancora/ Là, nella vita, nell’incanto, al mercato,/ Porto un drappello di canzoni/ Sfido a duello la risacca del mercato». Non nella Storia in quanto tale, e tantomeno nella storia della poesia Chlebnikov pensa se stesso, ma nella vita, travolto dalla sua risacca, e troppo grande, troppo idiota per pensare a cercarsi un riparo.