Recensioni / E il fotografo crea la realtà

Beffa paradosso o magia? La breve storia della fotografia digitale che Paolo Rosselli - un artista dell’obiettivo, «perditempo di professione» dice di sé sorridendo il cinquantasettenne fotografo milanese, figlio del designer Alberto Rosselli, nipote di Giò Ponti e allievo di Ugo Mulas - racconta nel suo libro sulla vita segreta delle immagini, spalanca lo scenario di una rivoluzione. Rapida, economica, silenziosa, incruenta, imprevista. Chi non ha morso il Sandwich digitale (così il titolo, appena uscito da Quodlibet, pp. 138, e25) senza digerirlo e assimilarlo all’istante?

Istantanea, ecco. Se ne scattano sempre, ovunque e da parte di chiunque. Basta premere un dito e la macchina - ben congegnata, già programmata, ultrasofisticata - riproduce lì per lì un’immagine perfetta: ad altissima fedeltà digitale. Fedele a se stesso e al proprio ruolo rischia di non esserlo più solo il fotografo: in crisi di identità professionale se tutti quanti ormai - apparecchio intelligente alla mano - sanno fare il suo lavoro.

Ma non è certo quello del rimpianto (per il vecchio metodo analogico) o del risentimento (per i tanti neofiti dei nuovi mezzi) lo spirito con cui Rosselli lancia la sua provocazione prendendo atto della rivoluzione digitale. Anzi: se la svolta è irreversibile e irresistibile, ben venga. E se lo «scatto» in avanti del progresso tecnologico l’ha innescata, ben gli si vada dietro per tener testa ai nuovi traguardi, o «obiettivi», che la tecnica consente di raggiungere.
Gli obiettivi del digitale, appunto, sono altri. Prima di altri l’ha visto Rosselli. «L’obiettività è un mito che annoia», scrive. E «il realismo è frutto di una logica perversa», «l’originalità d’artista è effetto dell’enfasi retorica». E allora? Allora facciamola finita con la vecchia idea delle foto che «documentano» la realtà. Con il compito del reportage che riproduce e restituisce una copia del mondo. Con i leggendari appostamenti del reporter che, installato il cavalletto, sta fermo per ore pronto a cogliere l’incanto, il gioco della luce, l’attimo fuggente. O con l’ideale di una verità che, seppellita da cliché, déjà-vu, pregiudizi, convenzioni, icone preconfezionate e miti d’oggi, qualche mago saprà estrarre coi suoi trucchi. Rosselli, smagatissimo, sfata tutte queste mistificazioni. Guarda dritto negli occhi gli occhi della fotocamera che sembra fare tutto lei. Riconosce gli ultimi sviluppi della civiltà delle immagini. E prende sul serio - ridendo anche un po’ - le sue incomponibili contraddizioni.

Cioè: oggi tutti sono fotografi e nessuno lo è. Si creano valanghe di foto che però, a sollievo degli archivi, spariscono subito spegnendo il pc. Si fissano a perpetua memoria elettronica inquadrature sempre provvisorie come «prove». Si opera con strumenti costosi da impiegare per produrre a costo zero. Ci si affida ad apparecchi complessi per compiere il più semplice dei gesti. L’effetto dello scatto è immediato e il tempo di lavoro è bruciato. Sono i classici paradossi della tecnica che sempre, quanto più è raffinata, tanto più libera chi la impiega della responsabilità di prestare attenzione o di prendere decisioni.

La fotografia però è nata «160 anni fa, nel 1839» proprio come figlia della tecnica. Tenendone conto e pensandola come un’arte, Rosselli recupera con estrema consapevolezza il valore aggiunto dal fotografo che opera col digitale. L’investimento di tempo, gusto, estro, sapienza, intelligenza «scontati» dall’apparecchio che scatta avvengono tutti in fase successiva. Non c’è uno «sviluppo» di pellicola, ovvio. Bensì una selezione: impegnativa, poiché gli scatti sono migliaia. Un’elaborazione: sottile, almeno quanto i software che la eseguono. Una decostruzione: di figure che si smontano ad arbitrio e rimontano a strati come «un sandwich». E una crescente astrazione: di immagini che, sciolte da narcisismi d’artista («la macchina è così brava, dice Rosselli, che posso tenerla a livello dello sterno per scattare»), emancipate dall’obbligo di significare un oggetto, rappresentano qualcosa che nel mondo non esiste. Presentano per aporia (o per magia) una composizione singolare, originale, unica, autentica, artistica che per status e modalità di esecuzione è assai prossima a una creazione pittorica.

I «quadri» fotografici di Rosselli sono affreschi di vita contemporanea: scorci di metropoli postmoderne, scene di civiltà avveniristiche, paesaggi di natura straniata. Ridipinte coi colori digitali, le sue Tokyo, Berlino, Istanbul, Pechino, Shangai, Milano, Parigi, Celerina mostrano volti che nessun occhio umano o tecnologico avrebbe mai visto. E invece bastava puntare il dito e lo sguardo digitale per indicare questo: guarda là, ancora una volta l’arte
inventa la realtà.