Recensioni / L'utopia del clic finita nel sandwich

«Bisogna ammetterlo, in realtà si ama e si ricorda una fotografia per il grado di alterazione della realtà che contiene e non certo per la sua fedeltà a qualcosa, anche se ipocritamente si sostiene il contrario». La tesi è chiara. Il libro di Paolo Rosselli racconta le conseguenze della «rivoluzione» digitale che ha trasformato l’universo della fotografia. Prima c’era la fotografia e la realtà: ma adesso? Un’altra citazione che può chiarire subito quale sia la prospettiva di Rosselli può essere la seguente: «Uno storico in vena di congetture un po’ spinte non avrebbe difficoltà a collegare la fine delle utopie del secolo passato con la fine della fotografia che registra il reale».
Rosselli ci ricorda che le innovazioni tecnologiche non sono mai solo progressi che riguardano le pratiche, ma comportano sempre modificazioni filosofiche, antropologiche, e che modificano cioè i contenuti. Mezzi e strumenti non sono mai solo tali, sono sempre mescolati ai soggetti che studiano. Le macchine fotografiche digitali non hanno solo reso lo scatto più facile o meno costoso: hanno modificato il rapporto con la realtà. Oggi si parte dall’immagine (prima foto) che compare sullo schermo della macchina, e da lì, se l’immagine ha generato certe sensazioni, si procede. E poi il cammino della foto è lungo: «Il suo destino è quello di assimilare e arricchirsi visivamente di nuove consapevolezze che si acquisiscono anche dopo molto tempo».
Per quel che riguarda la realtà, le conseguenze sono notevoli. Si scatta foto a qualsiasi oggetto: la foto digitale «rende intelligenti gli oggetti quotidiani, residui insignificanti (…) vengono improvvisamente liberati dalla loro piatta materialità, reinventati da una luce, da un contrasto». Non esistono più soggetti degni di essere fotografati, perché tutto può essere un pretesto per trovare un valore nascosto nel quotidiano. Nel libro Sandwich digitale sono presenti molte fotografie che “accompagnano” il testo scritto (o non è forse il contrario?). Comunque. In queste fotografie è scomparsa la distinzione tra spazi esterni e spazi interni, i riflessi presenti nelle immagini sono spesso presenze aeree che scavalcano l’interno per proiettarsi al centro di luoghi aperti. I tavolini interni di un bar possono lievitare nell’aria, svolazzare sopra l’asfalto di una strada. Nelle superfici a specchio, o nei materiali che restituiscono copie deformi di oggetti immobili, il mondo appare capovolto o dinamico. I piani si sovrappongono, si sciolgono uno nell’altro. La presenza degli oggetti sembra sempre casuale, incidentale. Scrive Rosselli: «A quanto pare, anche per la fotografia è arrivata l’ora, il momento fatale, inevitabile, della decostruzione, ovvero della sua scomposizione in strati, settori, punti, aree di lavoro».
Le foto sono sandwich perché le foto digitali sono organismi complessi e stratificati. Si capisce che l’autore è stufo della foto classica («insopportabilmente documentaria»), e in alcuni passi si ascrive ad una ideologia vagamente relativista: «La fotografia mostra che il viaggio in cerca dell’autenticità è la tipica missione impossibile». Ma almeno due riflessioni meriterebbero approfondimenti. Quando l’autore scrive: «Si può essere disgustati dal mondo del consumo (scarsa propensione allo shopping, acquisti solo per necessità) ma allo stesso tempo ci si accorge che questa avversione cessa quando si ha in mano lo strumento di registrazione, la macchina fotografica. (…) Dal disturbo che genera l’oggetto in questione si passa esattamente all’opposto, al risultare altamente gradito». E quando nota che la macchina fotografica: «Serve a curare le città dalle sue ferite, a levare di mezzo quel carattere d’illeggibilità che inconsapevolmente mette in mostra: le architetture, dopo la cura della fotografia, sembrano pacificate, senza più quella parvenza di crudeltà o d’insensata prepotenza». Il reale è moribondo ma la foto digitale è un balsamo per le sue ferite.