Recensioni / Ars est celare artem

Paolo D'Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Macerata Quodlibet, 2005, pp. 141.    

L'estetica è un campo fertile per le idee «je ne sais quoi». Grazia, fascino, eleganza, charme, stile, disinvoltura, sono alcuni dei termini che tentano di afferrare una delle più sfug genti qualità del bello, il perfetto equilibrio in cui consiste il sigillo della riuscita artistica.
Impossibili da definire, più facili da illustrare con exempla che da spiegare per concetti, preoccupantemente imparentate col mistero, queste idee sono «vaghe» nel senso letterale:
ondeggiano tra opposti per tradizione inconciliabili, come l'ignoranza e la consapevolezza, l'arbitrio e la regola, la spontaneità e l'affettazione, senza offrire appiglio a una determinazione stabile. Paolo D'Angelo, già autore di una ricerca sull'idea-madre di quest'anomala famiglia terminologica («Il non so che»: storia di un'Idea estetica, a cura di P. D'Angelo e S. Velotti, Palermo, Aesthetica, 1997), dedica ora un saggio ad «ars est celare artem», il principio che prescrive all'opera di dissimulare ad arte (immenso studio che l’ha richiesta, di apparire cioè «artificialmente naturale». Quest'idea estetica, rintracciabile in ogni forma di trattatistica, si è accompagnata nel corso della sua lunga fortuna all'espressione latina che ne è diventata la divisa araldica. La sua migliore approssimazione teorica è però offerta dal concetto rinascimentale di sprezzatura: «e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (Il cortegiano, cap. I, XXVI). Con il suo neologismo Baldassar Castiglione ha battezzato una delle più influenti «metaregole» della storia dell'estetica, che sintetizza un ideale applicabile a tutte le forme di arte: non solo le arti tradizionalmente riconosciute come tali, maggiori o minori, «belle» o decorative; ma anche quelle arti minime, spesso insospettabili e invisibili, cui ci affidiamo nell'improvvisare le pratiche della vita quotidiana - come il vestire, il mangiare, il modo di atteggiarci, muoverci o parlare. Arte di tutte le arti, la sprezzatura può esser tematizzata ovunque si affermi un'esigenza di gusto, la necessità di uno stile. La sua valenza è simile all'idea di grazia, ma con una differenza importante: la miracolosa spontaneità da perseguire non è un «dono» dall'origine indicibile, ma un «risultato», la paradossale conquista di uno sforzo attivo che si nega nel proprio compimento.
Messa a fuoco (idea nel capitolo introduttivo, D'Angelo ne rintraccia le svariate declinazioni storiche, dalla teoria e pratica delle beaux arts ai trattati di retorica o di dissimulazione politica, dal dibattito estetico tra ornamento e funzione all'arte dei giardini, dal pensiero classico alla cultura giapponese. Ognuno di questi momenti ripropone un problema teorico fondamentale: il rapporto tra natura e arte, a sua volta traducibile in quello tra originalità e imitazione, genio e regolatezza, naturalezza e sforzo, immediatezza e mediazione. Nelle diverse interpretazioni cui si prestano queste coppie concettuali si gioca la posta filosofica della ricerca: il precetto «ars est celare artem», infatti, può essere inteso sia come esaltazione della spontaneità originarla, nel senso di alcune estetiche romantiche o del rousseauismo più ingenuo; sia in senso classico, come ricerca di un equilibrio armonico, di una sintesi dialettica tra i due poli; sia come affermazione dell'artificialità più completa, dell'impossibilità di raggiungere una natura che sia davvero incontaminata dall'arte. La stessa distinzione tra domini metafisicamente distinti, una volta sottoposta alla sollecitazione teorica, può incrinarsi e vacillare in direzioni contrarie: se si esplicitano le premesse estetiche del modernismo e del funzionalismo estetico, ad esempio, si prospetta una sorta di regressione decostruttiva all’infinito («se anche l’assenza di ornamento fa' ornamento, se è possibile pensare un ornamento non apparente, non c'è possibilità di raggiungere un grado zero, un non-ornato: la semplicità può essere un vezzo, la naturalezza un artificio», p. 42); viceversa, se si segue la via del Teatro delle marionette di Kleist, diventa pensabile il movimento opposto, progressivo, che mira a raggiungere una natura di secondo grado, conquistata oltrepassando l'arte «dopo che la conoscenza ha attraversato l’infinito». E ancora, se si esaspera la tensione concettuale, si potrebbero addirittura incrinare le nostre più radicate abitudini di pensiero: come aveva intuito Heidegger riflettendo sull'idea giapponese di iki, nella meta di una grazia totalmente indipendente dall'intenzione soggettiva diventa pensabile una sorta di sprezzatura oltremetafisica, che non si radica più nella volontà o nella pratica di un io, ma al contrario lo esautora da ogni sovranità.
Sono solo alcune delle direzioni aperte da questo piccolo libro, il cui interesse non si limita agli specialisti di estetica. La ricerca di D'Angelo connette gli stessi ambiti cui può essere esteso il precetto di dissimulare l'arte, ibridando i loro confini, e contestando la legittimità di consolidati princìpi categoriali e disciplinari. Contro il pregiudizio cartesiano, proprio la vaghezza e l’allusività di un'idea si dimostrano ricche di suggestioni filosofiche.