Recensioni / Il testamento di Ivan Illich

Non appare forzato l’appellativo di “testamento” che accompagna un libro, più di ogni precedente prossimo a questo ganglio vitale: da cui non sembra più legittimo  prescindere nella recezione dell’opera di un uomo che, per aver rinunciato nel 1969 all’esercizio del sacerdozio, è pur rimasto fino all’ultimo giorno un monsignore della Chiesa cattolica.
Si può provare a riassumere l’argomentazione illiciana  dicendo che s’incardina sulla figura dell’Anticristo, identificata o riconosciuta nello svolgimento della civiltà moderna; ove anticristica, secondo una tradizione recente della teologia orientale, adusa a confrontarsi con un Tolstoj ad esempio, non è tanto la negazione quanto la surrogazione del Regno di Dio: insieme la sua realizzazione e la sua mistificazione, l’una e l’altra cosa inscindibilmente, come entrambe commesse a mani d’uomo; o piuttosto, nel caso in questione, come sottratte in realtà a “mani d’uomo” e alienate in strumenti da esse sempre più autonomi e in “sistemi” spersonalizzanti. In questa luce, un mondo globalmente pacificato, universalmente rispettoso dei diritti umani e magari  dell’ambiente naturale, capace di soddisfare tutti i bisogni materiali e spirituali dei suoi abitanti ecc., anzi gli stessi ideologemi di bisogno, diritto, benessere, “pace” (al singolare) – si  presentano  come l’incubo peggiore, per liberarsi dal quale non è sufficiente svegliarsi di soprassalto. Illich ha indicato molto per tempo la diabolica doppiezza (la “controproduttività”) dei processi di “sviluppo”, degli apparati di servizi “alla persona”, dei sistemi di informazione, ecc.; ma perfino la sua denuncia, senza avere scalfito l’immenso potere di quegli apparati tecnico-burocratici, ha solo contribuito secondo lui a renderli più consapevoli di sé e più sofisticati (più “democratici”, potremmo chiosare senza grosse forzature).
Mobilitare la figura dell’Anticristo, però, chiama in causa necessariamente quel Cristo di cui l’altro è la contraffazione. Qui la riflessione di Illich si fa più originale e lancinante, giungendo a diagnosticare una sostanziale continuità del cristianesimo storico dai suoi inizi fino a questo esito aberrante. È la Chiesa (la chiesa gregoriana in particolare, ma già quella costantiniana, e forse anche quella primitiva: ovunque si collochi il primo passo che trasforma il vangelo in dottrina e il rapporto personale in dispositivo tecnico, l’amore in un dovere morale e il peccato in una colpa giuridica; insomma,  la fides in religio), è la Chiesa ad aver concepito, portato in grembo, dato alla luce l’impostore; né si trova, secondo la lezione di Illich (ma anche  di altri storici,   Paolo Prodi ad esempio, che egli cita come suo maestro, o Harold Berman), istituzione moderna di qualche rilievo che non abbia il suo decisivo precedente nella storia della Chiesa. Né si tratta delle accuse di un apostata, piuttosto, di un mistero che il credente contempla angosciato. La stessa Chiesa che ha partorito la modernità, e ora la insegue per la sua strada se mai le riuscisse di trattenerla, è anche la “madre unica” e unicamente amata, confessa Illich, che gli ha trasmesso l’Annuncio e lo ha partorito alla fede.   L’uscita da questo paradosso sta per lui  nell’attesa di una resurrezione dai morti  della Chiesa stessa, quella resurrezione che tien dietro al “disvelamento” (l’apocalisse) della qualità anticristica della nostra civiltà: ormai imminente, a giudizio di Illich – ciò che apre a una comprensione dell’epoca come la “più intimamente cristiana” che sia dato di vivere.