Benché la scomparsa prematura di Gianni Carchia abbia messo fine alle sue ricerche nel pieno del loro sviluppo, grazie a questo libro bellissimo e profondamente meditato, cui l'autore ha lavorato fino all'ultimo, è possibile cogliere di esse tutta la ricchezza e l'intero profilo. Carchia veniva dall'antropologia e dalla teoria critica francofortese, che fu tra i primi in Italia a studiare sia nel versante adorniano sia in quello benjaminiano, per approdare poi a una forma originale di platonismo o di essenzialismo post-ermeneutico. Apparentemente un'inversione di rotta: da una filosofia della storia a una filosofia dello spirito, dall'ermeneutica alla metafisica, dal linguaggio all'essere. Fino a una teoria dello spirito o, per usare una sua espressione, del Verbo come "legame intimo con l'essere, come ritmo latente delle cose del mondo". In realtà il pensiero di Carchia evolve in modo lineare. L'esito è conforme alle premesse.
Si consideri la disamina carchiana dello stato attuale della filosofia. La tanto dibattuta contrapposizione fra analitici ed ermeneutici appare a lui sostanzialmente pretestuosa: gli uni e gli altri di fatto concordano sul punto decisivo, ossia sulla liquidazione della trascendenza del senso rispetto alle sue epifanie. Da dove la "svolta linguistica", chiede Carchia, se non dalla identificazione di orizzonte della comprensione e linguaggio? Ma identificare orizzonte della comprensione e linguaggio significa che della verità (la verità come paradigma e condizione dell'accesso degli eventi a un senso possibile) non ne è più nulla. Affermare, come afferma la neo-retorica contemporanea, che il logos in fondo è mito e soltanto mito, ossia effetto di linguaggio, non è che l'altra faccia del riduzionismo votato a sostenere, come sostiene la filosofia analitica, che il mito è semplicemente logos inconsapevole o mascherato.
La neo-retorica (ossia quel movimento di pensiero che va dall'ermeneutica al decostruzionismo, e di cui il pensiero debole è un episodio) ha, dice Carchia, la sua ragion d'essere nella negazione che esista un "altro" dal linguaggio e dunque qualcosa di spirituale che non sia mero "gioco linguistico". Col che viene oscurata l'evidenza cui la filosofia da Platone in poi si è sempre appellata. Tale è quell'intuire che non appartiene all'ordine del dicibile ma lo instaura, e lo instaura non a partire da sé, ossia dal linguaggio, ma da ciò che è oltre il linguaggio stesso - ed è la dimensione in cui lo spirito riposa silenziosamente in sé, dunque, non fatto culturale, bensì realtà archetipica, essenziale, originale. Ma volgere le spalle a Platone porta inevitabilmente a concepire la verità come invenzione fantastica e a risolverla nel suo farsi evento, nel suo non essere che apparenza. Non essendoci più eventi da intuire, conclude Carchia, restano solo cose da raccontare.
Con perfetta simmetria rovesciata la filosofia analitica compie il movimento opposto ma rinvia all'identica tesi della invalicabilità del linguaggio. Se l'ermeneutica, dopo aver dissolto verità e senso nel racconto e anzi, seguendo Nietzsche, nella favola, giunge al decostruzionismo e ai suoi sofismi, la filosofia analitica, ritenendo che il linguaggio purificato e formalizzato dica il mondo com'è veramente, non fa che negare la trascendibilità dell'orizzonte linguistico e ripristinare l'illusione che tra parola e cosa non ci sia alcun terzo. Scrive Carchia: "il riduzionismo della filosofia analitica che vuol mettere ordine nel linguaggio e, all'opposto, l'affermazione sofistica secondo cui il linguaggio è sempre orthos, in ordine, non sono in realtà antitetici. In entrambi i casi, si sottintende che non si dà verità - fosse pure come affermazione della sua indistinguibilità dalla menzogna - fuori appunto dalla lingua".
Prendendo le distanze sia dall'ermeneutica (e dal pensiero debole) sia dalla filosofia analitica (e dal neo-scientismo), Carchia non si lascia intimorire dall'interdetto che grava su gran parte della filosofia contemporanea, e, ritornando a Platone, indica la via del risalimento alle origini fino a scoprire che "il linguaggio è umano, troppo umano" e che viceversa la realtà eccede la sua significazione, trascende la comunità linguistica. Non è il linguaggio a catturare e ad appropriarsi della realtà, perché è vero invece che la realtà sempre di nuovo "ammutolisce" e "infrange" il linguaggio. In essa va riconosciuto, per quanto non possa essere nominato (infatti è irriducibile all'ordine del linguaggio), il principio di un'alterità che fa resistenza sia alla pretesa di demitizzare il mondo sia al tentativo di remitizzarlo. Del resto, osserva Carchia, il sospetto e la diffidenza nei confronti del linguaggio, che ha ispirato tanta riflessione filosofica contemporanea, non derivavano dalla consapevolezza che verità e realtà non sono mere proiezioni dell'umano ma vanno cercate altrove? Ossia in una dimensione che resta irrimediabilmente preclusa sia all'ermeneutica sia alla filosofia analitica?
Occorre secondo Carchia, qualora non si voglia rinunciare alla tesi del carattere fondamentalmente interpretativo del rapporto fra il linguaggio e la verità, far ricorso a una diversa ermeneutica: un'ermeneutica che postuli "un darsi originario del senso" e dunque il suo costituirsi (anzi, il suo essere già da sempre costituito) indipendentemente da chi lo interpreta e lo trasforma in fatto comunicativo. Di ciò Carchia vede un precedente in Bergson e nella sua concezione della circolarità dello spirito per cui lo spirito si fa mondo ma per farsi libero da qualsiasi mondo, pura energia creatrice, fonte di tutto ciò che è ma sussistente di per sé - e questa riscoperta di Bergson dopo Heidegger e al di là di Heidegger è degna della più grande attenzione. Ma non meno interessante la sollecitazione che Carchia ne ricava: a prendere sul serio "qualcosa che rappresenta forse lo scandalo massimo per il mondo della cultura e della storia, messi d'un colpo da parte".
Pensatore in polemica con la svolta linguistica e i suoi sbocchi solo apparentemente antitetici, Carchia individua i guasti che derivano da una concezione totalitaria e conservatrice del linguaggio - linguaggio che diventa tutt'uno con l'essere e ne offre un'immagine molto peggio che indebolita, perché ridotta a traccia del non essere, a memoria culturale, a monumento. "È la gabbia del linguaggio", egli scrive "a invertire lo stato di cose reale, inducendoci a credere, ad esempio, che il valore dell'opera d'arte non sia nella sua concezione - la visione delle idee, l'afferramento dei 'ricordi puri' - ma nella sua ricezione, nella sua accettazione da parte della critica, dei musei ecc.; oppure ancora, che il valore dell'azione morale non le sia intrinseco, ma dipenda dal suo adeguarsi o meno alle norme etiche ecc.". Lo stesso accade, e in modo emblematico, con la psicoanalisi. "I valori spirituali sono considerati qui solo una risposta, attraverso la sublimazione, alla pulsione di morte, dunque come volontà di immobilizzare il tempo, di stornare la caducità, in obbedienza a una concezione monumentale e funeraria della cultura". Insomma, i valori dello spirito sono convertiti in beni culturali che non hanno altro scopo (altro senso, altra verità) che la conservazione fine a se stessa.
Carchia scriveva queste cose già 1991. Da allora, come quest'opera dimostra, avrebbe proseguito nella direzione di una filosofia che, platonicamente, fosse amore del pensiero a misura che è pensiero che ama, pensiero capace di accordarsi all'essere, pensiero come musica che "dice il mondo com'è prima della creazione". Ma ciò non comporta necessariamente ascesi o mistica, benché Carchia abbia seguito anche tali cammini; non significa assolutamente distogliere lo sguardo dal mondo, perché significa giudicarlo a partire dal suo fondamento, dalla sua origine. Dunque, è Platone che permette a Carchia di essere fedele a quella teoria critica della società da cui era partito e che la filosofia degli ultimi trent'anni, si tratti di neo-retorica o di neo-positivismo, di neo-sofistica o di neo-scientismo, non ha fatto che tradire. In lui, nonostante il salto apparente, inizio e fine della ricerca chiudono il cerchio di un'impresa filosofica di rara coerenza, fra le più significative di questo scorcio di secolo.