Recensioni / L'amore nel pensiero

Il titolo dell'ultimo libro di Gianni Carchia - purtroppo non solo il più recente, ma proprio l'ultimo che ha scritto e preparato per la stampa - potrebbe anche suonare in modo leggermente diverso: non L'amore del pensiero, ma "L'amore nel pensiero". Almeno così mi sembra si debba trasformarlo per farsi un'idea unitaria del libro, che comprende saggi scritti nell'arco di un quindicennio e che, anche quando sono dedicati a discussioni di intento apparentemente storico-critico più che strettamente teorico, sono tutti riportabili a un unico filo conduttore, la ricerca di un amore che pos-sa ispirare e in qualche senso fondare - anche se non come pensava il termine la metafisica razionalistica - l'attività del pensiero. Negli ultimi anni, Carchia si era anche dedicato a un'intensa lettura di Platone - pubblicando un Commento al "Sofista" (Quodlibet, 1997) -, e in molte di queste pagine proprio Platone, oltre che richiamato esplicitamente, è presente come riferimento e ispiratore ideale. Ciò che, soprattutto in alcuni bellissimi capitoli della seconda parte del libro, Carchia chiama "spirito", cercando di coglierlo al di là delle letture vitalistiche e storicistiche che hanno dominato molte filosofie del nostro secolo, è per l'appunto quell'oggetto di amore che muove il pensiero e, solo, gli conferisce un senso. Questo intento di liberare lo spirito dagli equivoci che vi hanno incrostato teorie come quelle di Nicolai Hartmann e di Wilhelm Dilthey comporta anche una presa di distanza polemica dall'ermeneutica, almeno come Carchia la legge, a mio parere troppo condizionato dalla sua versione decostruzionista.
In modi e termini diversi, Hartmann e Dilthey non hanno saputo mantenere un netto discrimine tra lo spirito e la vita: Dilthey con la sua teoria dell'Erlebnis come chiave metodica delle scienze dello spirito, che secondo Carchia condiziona in modo determinante l'ermeneutica di ispirazione heideggeriana; e Hartmann con la tesi secondo cui lo spirito è una sorta di efflorescenza o sublimazione della vita, dalla quale si eleva come una sua formazione superiore, anche però inevitabilmente più debole, che per vivere ha sempre bisogno di rimettersi in contatto con la vita vivente di ciò che spirituale non è. Hartmann sostiene esplicitamente che le forme in cui lo spirito si obiettiva - in opere d'arte e di pensiero, in istituzioni, ecc. - non possono vivere se non in quanto uno spirito vivente le risvegli alla vita. Senza questo, lo spirito obiettivo (i "prodotti" concreti dello spirito), come già Hegel lo chiamava, rimane lettera morta. Ma ciò significa, secondo Carchia, che lo spirito non è nulla di autonomo, è solo vita che deve ritornare alla vita, e dunque anche all'immanenza e al destino della mortalità. In Hartmann, dunque, siamo di fronte a un vero e proprio "naturalismo dello spirito". Se il senso dei prodotti spirituali si dà solo nel loro essere rivissuti e interpretati, sembra a Carchia che non ci sia più alcuna autonomia dello spirituale rispetto alla vita concepita nella sua pura naturalità. È questo anche il senso dell'affermazione di Croce secondo cui ogni storia è storia contemporanea, perché è reale solo nella vita attuale che la rivive e reinterpreta. Così facendo, però, si arriva all'estremo del nichilismo ermeneutico ("i miei versi hanno il senso che gli si attribuisce", secondo il famoso detto di Valéry).
Di contro a questa totale dissoluzione della lettera dei testi e delle formazioni storico-culturali nell'atto interpretativo, che riduce tutto a storia vivente, e cioè a puro divenire naturale, alla vita nel sen-
so puramente "zoologico" del termine, Carchia richiama la nozione di spirito come la elabora Max Scheler: il quale vede l'essenza dello spirituale nell'essere qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a tutto ciò che è vita (vegetale, animale, psichica), "un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell'uomo". È una concezione ascetica dello spirito, che echeggia anche Schopenhauer; e in base alla quale Carchia propone di distinguere radicalmente lo spirito da tutto ciò che è cultura e storia, e che si pensa come una sorta di surplus della vita; lo spirito nella sua purezza è invece "sospensione degli impulsi vitali (...) anelito definalizzato, slancio rivolto su se stesso, impulso ridotto a forma". Lo spirituale è una sorta di valore finale, che non intende servire agli scopi della vita, della promozione della cultura, e non aspetta, anzi forse esclude, l'interpretazione vivente: "l''in sé' dello spirito è il frutto dell'ascesi, di quel processo di negazione grazie al quale ci si libera del 'per noi' di ogni recezione attualizzante".
Il sospetto che, come altri ermeneutici e decostruttori pentiti, anche Carchia abbia ceduto alla fine (ma in realtà già in tante opere precedenti, dunque non è affatto un pentito...) a quello che il suo Adorno nella Dialettica negativa stigmatizza come il "bisogno ontologico" di Heidegger, mi sembra solo in parte fondato. È innegabile che, collocando tutta l'ermeneutica dal lato di una riduzione vitalistico-naturalistica della storia, Carchia compie una semplificazione eccessiva, sia per ciò che riguarda Heidegger sia rispetto a Gadamer. La nozione-chiave di Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) gadameriana doveva infatti metterlo in guardia dal riportare l'interpretazione dello spirito obiettivo all'arbitrio del momento vissuto; l'in sé dei prodotti spirituali c'è proprio in quanto c'è una loro vita storica che non si riduce a servire da pura e semplice occasione alle nuove, arbitrarie interpretazioni, e che ha qualcosa dell'immortalità che sta a cuore a Platone. Può essere questa una risposta sufficiente all'esigenza di non lasciare che lo spirito sia travolto dalla pura e semplice vicenda della vita
e della morte, e che dunque,
tra l'altro, anche la morale finisca per assoggettarsi del tutto alla legge della sopravvivenza? Forse la risposta della storicità autenticamente spirituale - Wirkungsgeschichte di Gadamer, storia dell'essere in Heidegger - non è sufficiente a una mentalità platonica, ossessionata dal rapporto con un mondo di forme eterne che le appare come l'unica garanzia (ma che minaccia anche sempre di togliere ogni senso al divenire, alla speranza, alla libertà; forse all'amore stesso). Ma se la storia fosse pensata, cristianamente, come storia della salvezza, anche nel senso di una kenosi che non è certo estranea alle preoccupazioni ascetiche di Carchia, forse il discorso potrebbe cambiare.