Gianni Carchia è forse uno dei pensatori contemporanei che più ha inseguito i lineamenti di un pensiero attraverso percorsi variegati e apparentemente difformi, estraniandosi così decisamente dal tratto monografico, storicistico che appartiene alla tradizione della filosofia italiana. Carchia ha compiuto un iter nella filosofia che apparentemente non potrebbe esser più avventuroso, dal marxismo, dalla sua frequentazione dei "Quaderni rossi", da Benjamin e Adorno all'antropologia, per venire a Kant e al romanticismo, all'estetica delle arti figurative e poi ai suoi studi più recenti nei quali l'attenzione per il pensiero antico è divenuta prevalente. Pure sarebbe sbagliato pensare che la preoccupazione teorica maggiore di Carchia non si manifesti sin dall'inizio per maturare poi in seguito con peculiare coerenza. È quanto testimonia questa breve citazione tratta dal suo primo libro, Orfismo e tragedia (Celuc, 1979): "Solo il canto di Orfeo poeta è capace di redimere la natura: l'impulso salvifico della conoscenza vera non può, infatti, non essere estraneo all'hybris titanica che sotterraneamente pervade, non meno del mito, il logos, dispiegato".
Il tratto gentile della personalità di Carchia, che resta impresso nella memoria di chiunque lo abbia frequentato, è infine intrinseco al suo stesso modo di far filosofia, che è vivificato sin dall'inizio dalla preoccupazione di una natura oppressa che cerca la propria salvezza nell'arte. È su questo piano che si palesa la dimensione propriamente salvifica del suo pensiero, che coincide con la sua vocazione estetica. Una vocazione estetica che rivendica la sua universalità su di un piano che trascende l'arte stessa. Questo tratto attraversa la meditazione di Carchia dai suoi inizi sino agli esiti ultimi che preludono alla sua immatura scomparsa. La salvezza attraverso l'apparenza è divenuta in Carchia una figura del "sublime rovesciato" - a riprendere parzialmente il titolo di un suo saggio contenuto in Retorica del sublime (Laterza, 1990) - della liberazione dall'immanenza. È un cammino verso quell'altro dal mondo che è la forma, estrema salvaguardia dalla positività dell'essere che si staglia nella sua quasi demonica intrascendibilità.
Un pensiero, dunque, che non ha mai dimesso la propria criticità ma che, anzi, la ha accentuata a confronto con gli esiti estremi del moderno e del tardo-moderno, come testimonia fra l'altro anche la sua splendida trattazione dell'Estetica antica (Laterza, 1999). L'opposizione antico-moderno si estende così dalla sua cifra storica a quella metafisica, a intendere l'opposizione perenne tra la bellezza e la storia, un bellezza che romanticamente decade nell'arte secondo una tesi che viene sviluppata in particolare in Arte e bellezza (il Mulino, 1995). È solo al di là della portata univocamente artistica della bellezza, introdotta dalle estetiche idealistiche, che è dato recuperarne la cifra peculiare, quella liberazione nell'apparenza che costituisce la più remota promessa della kantiana Critica del Giudizio.
La produzione scientifica di Carchia è ricchissima. Oltre ai libri già citati sopra bisogna ricordare almeno Estetica ed erotica. Saggio sull'immaginazione (Celuc, 1981); la raccolta di saggi La legittimazione dell'arte (Guida, 1982); lo studio sul romanzo antico Dall'apparenza al mistero (Celuc, 1983); Il mito in pittura (Celuc, 1987), nel quale si affaccia, tra l'altro, l'idea di un'ermeneutica della pittura poi sviluppata in studi successivi; La favola dell'essere. Commento al "Sofista" (Quodlibet, 1997); Dizionario di estetica (in collaborazione con Paolo D'Angelo, Laterza, 1999); e infine L'amore del pensiero sul quale si soffermano anche queste pagine.