Recensioni / Periferie della storia

La storia – sia quella con la esse maiuscola che quella con la esse minuscola – occupa un ruolo di primo piano nei dibattiti e nelle letterature postcoloniali. Basti pensare al lavoro portato avanti dal gruppo dei Subaltern Studies oppure alle opere di scrittori quali Salman Rushdie e Gabriel García Márquez, per ricordare solo i più internazionalmente conosciuti. Aspetto fondamentale di una decolonizzazione culturale e mentale prima ancora che politica, la ri-scrittura e la re-visione della storia sembrano costituire un vero e proprio imperativo per gli scrittori provenienti dalle cosiddette ex-colonie, i quali, in contesti assolutamente diversi e adottando modalità differenti, cercano di fare i conti con il proprio passato segnato dal colonialismo oppure con la storia più recente caratterizzata dal neo-colonialismo statunitense. Quali esempi si possono citare Things Fall Apart del nigeriano Chinua Achebe, Red Earth and Pouring Rain dell’indiano Vikram Chandra e il poco conosciuto Angel della caraibica Merle Collins, nel quale viene rivissuta l’invasione statunitense a Grenada del 1983 che ha posto fine a un tentativo di rivoluzione ‘comunista’. Ma l’elenco è, senza alcuna esagerazione, pressoché interminabile.

Il volume a cura di Silvia Albertazzi, Barnaba Maj e Roberto Vecchi intitolato Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte, recentemente pubblicato da Quodlibet, è dedicato proprio alla disamina delle problematiche legate alla rappresentazione della storia in ambito postcoloniale. Suddiviso in tre sezioni, “Rappresentare la storia”, “Raffigurare la storia” e “Raccontare la storia”, il volume non può che aprirsi con un’indispensabile capitolo, “Colonialismo, postcolonialismo e neocolonialismo: questioni generali di rappresentazione della storia”, che ha il compito di introdurre da un punto di vista storico e metodologico il contesto in cui si inscrivono i contributi successivi. In modo sintetico e molto incisivo l’autore, Barnaba Maj, delinea i punti più importanti della storia mondiale degli ultimi centocinquanta anni circa. Si inizia con la descrizione del “declino del colonialismo classico sia come ideologia che come prassi storico-politica” (p. 15), un declino che ha avuto luogo nella seconda metà del XIX secolo e che ha visto gli stessi stati, e non più solo singole personalità o gruppi privati, lanciarsi in nuove imprese coloniali. Oltretutto, nuovi stati si affacciano sulla scena mondiale e tentano di espandersi oltre i propri confini, come Germania e Italia, ma non vanno dimenticate neppure la Russia zarista, gli Usa e il Giappone, la cui espansione coloniale “ha avuto un ruolo storico dirompente nel sistema degli equilibri asiatici, con effetti di portata mondiale” (p. 16). Ampio spazio viene poi dato a un’analisi della storia più recente, alle due guerre mondiali, alla guerra fredda e al ruolo degli USA negli attuali equilibri mondiali. Un occhio di riguardo è sempre rivolto ai mezzi attraverso i quali la storia viene rappresentata e alla loro evoluzione. Maj evidenzia infatti come nel 1911 gli italiani potessero seguire l’impresa coloniale libica attraverso le pagine e le illustrazioni della “Domenica del Corriere” mentre la più recente Guerra del Golfo è stata seguita in diretta televisiva in tutto il mondo attraverso la CNN. L’ultima riflessione riguarda lo smantellamento di quasi tutte le colonie avvenuto dopo la fine della seconda guerra mondiale e, in questo contesto, viene sollevato il legittimo dubbio “se la decolonizzazione sia stata davvero la fine del colonialismo o soltanto il necessario cambiamento delle forme politiche e delle relazioni internazionali, per instaurare un nuovo tipo di rapporti ‘coloniali’”. E Barnaba Maj aggiunge:
Se una percezione di questo tipo della realtà storica contemporanea si salda con una rilettura o una rappresentazione della storia del passato schiavistico e coloniale e ciò trova la sua cristallizzazione in un’ideologia politico-religiosa è impossibile pensare che questo coagulo non “produca” storia. L’azione storica muove sempre da una rappresentazione storica del passato, ovvero del passato riletto dal presente. Poiché mai come ora la realtà della storia contemporanea sembra non più suscettibile di dubbi e la contemporaneità è ormai inscindibile dall’universalità, non si può eludere il compito di una comprensione culturale che muova dalla coscienza dell’insostenibilità dello squilibrio, se si vuole che il confronto sostituisca il conflitto tra civiltà. (p. 37)
A questo capitolo fanno seguito i contributi di notevole spessore di due studiosi molto importanti, lo storico australiano Patrick Wolfe e il teorico comparatista statunitense Timothy Brennan. In “Il musulmano ha diritto di parola? Una critica obbligata” Wolfe prende in esame alcune delle tesi postulate da Gayatri Spivak, senza ombra di dubbio uno degli studiosi che ha maggiormente influenzato gli studi postcoloniali, ma anche uno dei più controversi. Il titolo scelto da Wolfe evoca il celebre saggio “Can the Subaltern Speak?” nel quale Spivak ha risaputamene discusso il caso del sati, ovvero delle vedove indù che si immolavano sulla pira funebre dei mariti (1) <http://www.miserabili.com/archives/2005/02/periferie_della.html#1#1> . Il sati ritorna anche nel più recente volume della studiosa, A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present, e costituisce lo spunto dal quale Wolfe prende le mosse. In riferimento all’immolazione delle vedove Spivak argomenta che solamente le versioni dei colonizzatori inglesi e dei bramini sono ampiamente conosciute, mentre si ignora il punto di vista delle donne che si sono sacrificate, la cui voce non potrà mai essere ascoltata. Dal problema del sati Wolfe sposta però la sua attenzione sulla soppressione del regno Mughal in India da parte degli inglesi, “al fine di valutare la complicità strutturale tra il testo di Spivak e quelli dei legislatori coloniali e dei bramini che hanno affrontato la questione del sati” (p. 46). Lo storico australiano introduce questo spostamento sottolineando che si tratta di “una cancellazione prodotta dal modo stesso in cui Spivak rende conto del binarismo coloniale (e se è per questo, anche indigeno). Perché, infatti, le figure presenti nel suo schema (uomini bianchi, uomini dalla pelle scura, buone mogli, Bramini, sapienti shastrici, ecc.) sono tutti indù o cristiani – cioè a dire, sono tutti non-musulmani” (p. 51). Ciò che Wolfe intende fare è infatti dimostrare che “i tre tipi di testo convergono nel suscitare la domanda: il musulmano ha diritto di parola?” (p. 46-47). Per meglio analizzare la cancellazione dei musulmani in India e scandagliare la complicità tra colonialismo inglese e nazionalismo indù in questo contesto, Wolfe chiama in causa la figura storica del Rajah Rammohun Roy, “il riformatore indù che è stato definito il padre sia dell’India moderna sia della scienza delle religioni comparate” (p. 52). Rammohun, contrario a ogni settarismo religioso, da lui considerato una delle “cause della disarmonia sociale che vedeva attorno a sé” riteneva che “tutte le religioni erano espressioni della fede nello stesso unico Dio, anche se adorato sotto nomi e forme differenti” (p. 53). Ciò che si tende a trascurare se non a elidere completamente è il debito che tali asserzioni hanno nei confronti dell’eredità islamica indiana e che “i principi riformatori attribuiti alle influenze europee erano già stati enunciati in idioma indiano prima che Rammohun imparasse l’inglese” (p. 60). Si tratta, per lo studioso australiano, di un caso lampante di rimozione del retaggio islamico.
Di rimozione di un passato e di idee ‘scomode’ si occupa anche Timothy Brennan nel suo saggio intitolato “L’intellettuale meridionale”, in cui l’autore sembra voler dare una scossa ai più recenti dibattiti in ambito postcoloniale. Tutta la parte introduttiva del suo saggio è dedicato a una disamina della ricezione di Antonio Gramsci, poiché “nessuno ha mai esaminato Gramsci come fonte intellettuale per uno studio ampio e interdisciplinare del colonialismo e dell’imperialismo; né è stato ancora descritto il paradigma emergente della sua ricezione da parte dei teorici postcoloniali” (p. 71). Se, da una parte, lo scopo dello studioso statunitense è mettere in luce il ruolo fondamentale di Gramsci all’interno degli studi postcoloniali, dall’altra, la tesi che Brennan porta avanti lungo tutto il suo saggio in modo estremamente efficace e convincente può essere così riassunta: la stragrande maggioranza dei teorici postcoloniali rimandano a Gramsci e lo considerano una sorta di nume tutelare senza avere una conoscenza di prima mano dei suoi scritti. Con le parole di Brennan. Nella ricezione di Gramsci in effetti colpisce che la quasi totalità dei testi postcoloniali ne riconosce l’autorità, rifiutandosi però nello stesso tempo di fare i conti con la sua opera in maniera sistematica e originale. Tutti i suoi articoli politici, le sue circolari di partito, come molti passi non antologizzati dei Quaderni, restano in larga misura sconosciuti agli studiosi che lo citano. In questo modo, nella sua quasi unanimità la ricezione spesso assume una tonalità emotiva in contrasto con le tesi proprie di Gramsci, il suo pensiero e le prospettive da cui parte. In luogo di un’esposizione accurata o di una lettura attenta, troviamo atti di fedeltà all’interno del quadro delineato da quattro termini classificatori presi a prestito dalla sua opera (egemonia, subalterno, rivoluzione passiva, senso comune). (pp. 73-74)
Brennan pone inoltre l’accento sul fatto che Gramsci è giunto alla maggior parte dei teorici postcoloniali tramite una fonte ben precisa, il filosofo Louis Althusser, il quale non ha mai fatto mistero di non avere lavorato direttamente sui testi gramsciani. In questo modo, “i miti inaugurati da Althusser sono stati trasmessi come gli errori nelle trascrizioni medievali” (p. 97). Nello specifico, l’autore del saggio prende in considerazione come è stato ‘recepito’ Gramsci da Stuart Hall e nei Subaltern Studies. Hall, in modo particolare, sembra aver attuato una sorta di separazione tra la persona Gramsci e i suoi testi.
È in questa incarnazione che Gramsci diventa una sorta di santo patrono della teoria postcoloniale. Considerata come persona nel mondo, Gramsci è particolarmente adatto allo scopo di colpire sistematicamente il marxismo dal suo stesso interno per l’impossibilità di replicare ai suoi interpreti, per la sua lunga detenzione, per la morte avvenuta prima della seconda guerra mondiale e per la possibilità per così dire di impersonare il presunto spostamento della sua teoria dalla classe ad altre forme di identità marginalizzata in virtù della sua provenienza dal meridione povero d’Italia. (p. 106)
In realtà, Brennan sostiene, non senza un pizzico di ironia, che “Malgrado questa tendenza a glorificare la sua persona, i suoi commentatori della Nuova Sinistra sarebbero rimasti sicuramente sgomenti se lo avessero incontrato negli anni ’20. Verosimilmente sarebbe loro apparso privo di senso dell’umorismo, inutilmente passionale, solitario e inflessibile” (p. 107). Come quest’ultima considerazione lascia ben intendere, ciò che lo studioso statunitense è riuscito a fare con il suo saggio è “catturare di nuovo figure, idee e movimenti che sono stati oscurati, se non espunti dal ricordo del passato – lasciati al margine perché non si adattavano ai racconti generalmente accettati del nostro passato politico” (p. 141).
La sezione successiva contiene due saggi molto originali: “Ritratto fotografico in Costa d’Avorio. Cornelius Yao Azaglo Augustt” di Luca Acquarelli e “Illuminismo à la Lumière. I pericoli della rappresentazione tra rivoluzione, romanzo e cinema” di Davide Messina. Presente in Africa già a partire dalla fine dell’800, la pratica fotografica del ritratto costituisce un modo molto interessante di esaminare la rappresentazione dell’alterità. Come osserva Acquarelli, “L’indagine condotta su questo prodotto culturale ibrido ha […] l’intento di promuovere una conoscenza dell’altro a partire dall’Altro, sostenendo il presupposto che nessun singolo mondo può essere contenuto da un altro mondo, a favore di un’altra estetica africana al di fuori del discorso colonialista” (p. 182). Grazie all’analisi accurata di alcuni ritratti fotografici appartenenti alla produzione di un fotografo africano, Cornelius Yao Azaglo Augustt, Acquarelli tenta di mettere in luce i piccoli accorgimenti ai quali il fotografo ha fatto ricorso per lasciare la propria impronta anche in quelle che altro non dovevano essere che foto in formato tessera, ma soprattutto tenta di dare spazio e ‘voce’ all’atteggiamento dei soggetti ritratti, conferendo quindi loro un ruolo tutt’altro che passivo.
Davide Messina esamina un altro strumento di raffigurazione, il cinema. Lo spunto da cui prende le mosse il suo saggio è la tripartizione operata da Balzac nel suo studio su Stendhal tra littérature des idèes, littérature des images e éclectisme littéraire. A illustrare un caso calzante di letteratura di immagini sono The Viceroy of Ouidah di Bruce Chatwin e la versione cinematografica realizzata da Werner Herzog, Cobra Verde. Non a caso, nell’analisi che Messina fa del libro di Chatwin vengono posti in risalto i ‘colori dominanti’ in alcune scene del romanzo, quasi si trattasse di un dipinto. La sceneggiatura del film Queimada di Gillo Pontecorvo viene invece discussa quale esemplificazione della letteratura di idee.
A questa fa seguito una sezione in cui viene presa in considerazione la riscrittura della storia operata da alcuni scrittori postcoloniali appartenenti a aree linguistiche diverse: anglofoba, francofona, ispanofona e lusofona. Nel suo saggio, “Salman Rushdie e la storia: dal revisionismo magico all’iperrealismo del presente”, Silvia Albertazzi ripercorre tutta la produzione letteraria di Salman Rushdie – a partire dal primo romanzo Grimus, un’opera che lo scrittore stesso aveva rigettato, proibendone ulteriori traduzioni (ma del quale è recentemente uscita la versione italiana), fino a Fury, pubblicato alla fine del 2001. L’accento è posto sui diversi modi in cui Rushdie ha rappresentato la Storia e le storie nelle sue opere e su come le sue modalità di rappresentazione siano mutate nel corso degli anni. Midnight’s Children, Shame e The Satanic Verses – i suoi primi romanzi di successo – sono infatti caratterizzati da un rifiuto del “concetto tradizionale di mimesi realistica a favore di un modo di porsi a confronto col reale che tenga conto dei lati oscuri, irrazionali, confusi di quella stessa realtà” (p. 212). Si tratta quindi di opere contraddistinte da una peculiare commistione di fantastico e reale e, soprattutto, da un punto di vista “‘altro’, soggettivo, orientale, demistificante, irrealistico, irriverente nei confronti della cronaca e del potere. Derisione e revisione, alla base della storiografia fantastica, personale e collettiva, rushdiana, altro non sono che modi di sovversione – e la sovversione è inseparabile dall’innovazione dei contenuti” (p. 215). In altri termini, nelle sue prime opere Rushdie mina “alla base i principi di fondo della storia ufficiale – rigorosa separazione del reale dall’immaginario e sequenza temporale irreversibile” (p. 220). Proprio per questi motivi lo scrittore indoinglese è stato da più parti accostato, suo malgrado, al ‘realismo magico’ sudamericano. Con le sue opere successive il discorso sembra però mutare, in modo particolare con l’ultimo romanzo. Inoltre, se Midnight’s Children, Shame e The Satanic Verses possono essere letti come modi diversi in cui Rushdie ha cercato di fare i conti con la storia rispettivamente dell’India, del Pakistan e della diaspora indiana in Inghilterra, con The Ground Beneath Her Feet lo scrittore indoinglese sembra aprire “un discorso, tuttora in atto, sulla rappresentazione non più e non soltanto della storia, ma degli eventi storici nel processo di globalizzazione” (p. 234). In The Ground Beneath Her Feet ci troviamo, non a caso, a cavallo tra India, Inghilterra e Stati Uniti, viene cioè inaugurato quello spostamento verso gli Stati Uniti che verrà completato nel suo ultimo romanzo, Fury, ambientato a New York, la ‘capitale dell’impero americano’, “un mondo caratterizzato dall’esaltazione dei simulacri, dalla soddisfazione di inesistenti bisogni indotti dalla pubblicità e dal marketing, dalla frustrazione per la mancanza di cose mai conosciute (o, se si preferisce, mai perdute), in una parola, da una forma dilaniante di ‘nostalgia senza memoria’” (p. 238). In questo romanzo, lo scrittore indoinglese fa ricorso a una “sorta di iperrealismo narrativo, in cui le parole fotografano il mondo reale, trasformandolo in immagini di simulacri ‘più veri del vero’, copie perfette di originali mai esistiti” (p. 236). Tuttavia, sostiene Silvia Albertazzi, sbaglia chi ravvisa in questa modalità di rappresentazione una netta cesura con quanto scritto da Rushdie in precedenza: “è piuttosto una derivazione del suo cosiddetto ‘realismo magico’, una forma di iperrealismo che, proprio per la sua natura esasperata, non risulta meno ‘fantastico’ delle sue precedenti narrazioni antimimetiche” (p. 238). E questo sembra essere proprio il modo più indicato per rappresentare il presente come fosse già passato come fa Rushdie in Fury, in cui stigmatizza “ironicamente la valorizzazione dell’effimero, che caratterizza la nostra attuale società occidentale” (p. 238).
Carminella Biondi dedica il suo saggio a uno studio del pensatore-scrittore martinicano Édouard Glissant: “La ‘visione profetica del passato’ di Édouard Glissant”. A un’opera in particolare viene conferito un ruolo di primo piano nel saggio, Le quatrième siècle. Si tratta un romanzo nel quale lo scrittore ha ricostruito la storia caraibica degli ultimi quattro secoli, dal momento in cui, cioè, ha avuto inizio la storia dei neri nei Caraibi in seguito al middle passage. Come si può ben comprendere, si tratta di una storia estremamente difficile da ricostruire a causa della mancanza di fonti e testimonianze scritte: “Lo scrittore deve prendere atto che per lui i libri di storia e i documenti d’archivio sono muti: possono tutt’al più aiutarlo a stabilire qualche riferimento cronologico, fornirgli notizie sui documenti ufficiali, su eventi che hanno fatto scalpore, sui coloni e i loro sistemi di vita, tutte informazioni che lo concernano ma che di fatto lo escludono” (p. 249). E non a caso Carminella Biondi aggiunge: “Credo che il grande colpo di genio e la novità assoluta dello scrittore Glissant stia proprio nell’aver capito che quel passato così drammatico, intenso, vivo eppur inesistente e muto, non si potesse ricostruire adottando i modelli storici e i canoni narrativi di cui ci si era serviti per obliterarlo; di aver preso atto che in quel passato ci sono vuoti ormai incolmabili con cui si devono fare i conti e che bisognava pertanto tentare di valorizzare i pochi ‘pieni’ rimasti, o inventare dei ‘pieni’ caricandoli di tutto il peso di una ricostruzione storica globale” (p. 250). Ed è grazie a quella che Glissant stesso ha chiamato la “vision prophétique du passé” che la storia viene ricostruita o, meglio, immaginata. Vi è un episodio che lo scrittore ama ricordare e che è paradigmatico. All’interno di Le quatrième siècle ha ‘immaginato’ una scena in cui, in seguito all’emancipazione degli schiavi in Martinica nel 1848, vengono conferiti nomi a tutti gli schiavi che ancora non ne possedevano uno. Questa scena, frutto dell’immaginazione di Glissant ma assolutamente verosimile, è stata citata all’interno di una rivista “très sérieuse, confidentielle et très scientifique” sull’onomastica, in un saggio molto rigoroso scritto da un “grand savant en la matière”. Quel capitolo tratto da Le quatrième siècle, “que j’avais complètement imaginé et complètement inventé […] est devenu un élément de science” e altro non era se non, appunto, una ‘visione profetica del passato’. Va infatti sottolineata “la funzione imprescindibile dell’immaginazione visionaria nella scrittura del passato, nella scrittura della storia”. Ma va soprattutto chiarito che ciò non vale solo per “i popoli la cui storia è stata occultata”, ma anche per “altri contesti, per evitare che la scienza storica, come ogni altra scienza, sia solo vuoto sistema, sradicato dalla vita, incapace di cogliere le latenze profonde dei fenomeni umani che sono sottese alla parola e le danno un senso” (p. 256).

Come esplica il titolo, “Il tempo difratto: Biblique des derniers gestes di Patrick Chamoiseau come espressione di problemi storiografici”, Paola Ghinelli nel suo saggio si è proposta di ripercorrere gli sviluppi più recenti della teoria storiografica e di verificarne le consonanze con l’imponente romanzo del martinicano Patrick Chamoiseau. Ghinelli evidenzia in modo particolare come le modalità di scrivere la storia abbiano subito notevoli mutamenti negli ultimi anni. Ampio spazio viene infatti ora concesso alle “microstorie, ovvero le ricostruzioni della vita quotidiana di persone comuni. È stata sperimentata altresì la narrazione storica non ordinata cronologicamente, o che muove dal presente al passato. Altre volte si sono giustapposti documenti autentici riguardanti un singolo episodio o personaggio. Più in generale negli ultimi decenni si è accordata sempre più importanza al confronto tra vita pubblica e privata, alla pluralità di punti di vista, alle percezioni culturali degli eventi” (p. 279). Tali ‘innovazioni’ in ambito storiografico erano però già state utilizzate in romanzi come quello di Chamoiseau, “che è al contempo una ‘storia totale’, un insieme di microstorie, una narrazione priva di ordine cronologico e che si svolge a ritroso, nonché una giustapposizione di documenti (autentici o plausibili)” (pp. 279-280). Va infatti tenuto a mente che “raccontare secondo un punto di vista idoneo a rappresentare la molteplicità del reale è un obiettivo comune alla storiografia e a questo tipo di letteratura, per definizione alla ricerca di una verità alternativa a quella narrata dai libri di storia” (pp. 280-281).

Cristina Fiallega dedica il suo saggio, “‘Sono condannato ad un destino di teatro’: Simón Bolívar nella narrativa di García Márquez”, alla disamina della rappresentazione della figura storica del Libertador Simón Bolívar all’interno di un particolare romanzo di Gabriel García Márquez, El general en su laberinto. In altri termini, il saggio esamina come un “famosissimo scrittore, oltre che affermato giornalista di cronaca, ha deciso di raccontare a modo suo una storia risaputa, e per farlo ha unito alle sue competenze giornalistiche (capacità di attingere a fonti affidabili, sia scritte che orali o di altro tipo) l’apparato retorico-poetico del cd. Realismo magico. In tal modo, ha creato un’immagine inedita di uno dei più celebri eroi latinoamericani” (p. 305).

Roberto Mulinacci in “L’ombra di Camões. L’impossibile ritorno della storia in As Naus di Lobo Antunes” […] mostra al lettore come “quel metaforico scarabocchio che As Naus rappresentano sul grande Libro della storia portoghese” possa essere considerato “un irriverente sberleffo in faccia a secoli di conclamata gloria nazionale” (p. 322). Mulinacci rincara la dose facendo notare come il “riso beffardo dell’autore” sia rivolto “contro la concezione sacrale di quel passato e l’assunzione acritica della sua eredità nella sfera del vero storico, assolutamente certo e incontrovertibile” (p. 322). Ancora una volta ci troviamo di fronte a un autore che con le sue ‘storie’ si prende gioco della ‘Storia’ ufficiale, canonizzata e, pertanto, ritenuta irrefutabile.
Nell’ultimo saggio del volume, “Genealogie del trauma: memoria e rappresentazione storica nella letteratura femminile della guerra coloniale”, Roberto Vecchi prende in considerazione la rappresentazione della guerra combattuta dal Portogallo nelle sue colonie africane per contrastare i movimenti indipendentisti. Interessante è vedere come la sua riflessione sia incentrata sulla possibilità stessa dell’esistenza di una letteratura della guerra coloniale, poiché la sua effettiva esistenza tradisce “la tensione esistente tra la letteratura come menzogna, così come oggi siamo inclini, in chiave postmoderna, a concepirla, e una letteratura contrassegnata da una forte carica testimoniale, una letteratura-verità che in alcune circostanze, come nel Portogallo attuale, siamo tenuti – o vi siamo indotti dai molti silenzi od omissioni della storia – ad affrontarla” (p. 340). In altri termini, Vecchi si chiede se sia possibile concepire la letteratura anche come “rappresentazione storica condivisibile di memorie che ancora non hanno prodotto una storia condivisa” (p. 340). L’autore del saggio complica ulteriormente il problema concentrandosi sul punto di vista femminile e domandandosi come “una figura silenziosa e ridotta al silenzio, la donna dinanzi alla guerra, può contribuire a rappresentare un tema, silenzioso e ridotto al silenzio, come la rappresentazione della guerra coloniale” (p. 344). La conclusione di Vecchi è che “la letteratura può […] offrire atti di autori-autrici essenziali per una effettiva comprensione storica” (p. 349), anche se non va dimenticato che “Si tratta di una storia che esplora dimensioni implicite e singolari, quanto normalmente viene escluso dalla storia, i sentimenti, i desideri, la coscienza, gli istinti” (p. 356).
Periferie delle storie è dunque un volume molto denso, i cui saggi estremamente eterogenei offrono svariati spunti di riflessione. Soprattutto, però, come sottolineano i curatori del volume nella loro nota introduttiva che reca il titolo di “Silenzi ricolmi di immagini”, i saggi mettono in luce “se ancora una volta era necessario farlo, la straordinaria vitalità e resistenza che le culture periferiche oppongono alle Storie metropolitane, riuscendo attraverso una profonda riformulazione delle categorie rappresentative, a fare emergere comunque le loro voci sommerse e subalterne” (p. 11). Ma, aspetto forse ancora più interessante, alcuni dei saggi possono essere letti come tentativi di dare una risposta a un quesito particolarmente scottante e complesso, ovvero se un’opera narrativa, di fiction, possa essere considerata o meno una sorta di ‘documento storico’. A tale proposito vorrei concludere con alcune riflessioni di una scrittrice giamaicana, Erna Brodber, le cui opere non sono state prese in considerazione all’interno del volume, ma che vi potrebbero sicuramente rientrare. La Brodber, sia nella sua produzione letteraria che saggistica, ha da sempre cercato di salvare dall’oblio la storia del suo paese e della sua gente e, in una recente raccolta di suoi scritti, ha ribadito come sia giunta a credere profondamente “in the therapeutic value of knowing one’s history” (Erna Brodber, The Continent of Back Consciousness, London, New Beacon Books, 2003, p. 162). Inoltre, in un altro saggio in cui la scrittrice sostiene la legittimità di fare ricorso a fonti orali nella “creation of a social history of the region” (Erna Brodber, “Oral sources and the creation of a social history of the Caribbean”, Jamaica Journal, 6: 4 1983, p. 2), prende in considerazione tre scrittori caraibici e le loro opere: Kamau Brathwaite, Orlando Patterson e Vic Reid, tutti e tre accomunati dal fatto che conoscono benissimo “the significance of historical evidence” (p. 4), in quanto il primo è uno storico, il secondo un sociologo e il terzo un giornalista. Ciononostante, “they all found archival data inadequate for describing the responses of their forefathers” e Brodber si pone quindi una domanda che racchiude anche la risposta: “where, if not in the imagination of the creative writers, will we find the admissible data on the behaviour of people who left no memoirs?” (p. 7). Non certo per caso Glissant, in occasione della presentazione della traduzione italiana di Le quatrième siècle avvenuta a Bologna il 23 giugno 2004 ha affermato, sempre in riferimento all’episodio del suo romanzo discusso più sopra: “Non l’ho inventato, l’ho immaginato, ma sono sicuro che è andata così”.

(1) Wolfe fa notare i diversi significati della parola sati (“verità”, “virtù”) e evidenzia che il termine è passato alla storia con il significato che normalmente gli si attribuisce poiché è stata tradotto male nel discorso coloniale (cfr. p. 47).

Silvia Albertazzi, Barnaba Maj, Roberto Vecchi - Periferie della storia - Quodlibet - € 18