Recensioni / Il grande critico d'arte? Una specie estinta.

Intervista a Paolo D’angelo, docente di estetica a Roma.

Cesare Brandi, del quale quest'anno ricorre il centenario della nascita, è stato uno dei massimi teorici e storici dell'arte del Novecento, ma i suoi meriti non sono ancora stati riconosciuti interamente. Nei confronti della sua opera si è esercitata una duplice diffidenza: gli studiosi d'arte lo hanno considerato troppo filosofo, i filosofi hanno ritenuto che la sua riflessione fosse troppo condizio­nata dalla sua attività di critico. Ad aprile uscirà presso la casa editrice Quodlibet il volume di Paolo D'An­gelo Cesare Brandi. Critica d'arte e filosofia, un libro che vuole invece dare finalmente a Brandi quel che è di Brandi, cioè mostrare come proprio la sua lezione di critico-fi­losofo, di critico e filosofo dell'arte sia oggi fondamentale. Per farlo D'Angelo (che insegna Estetica al­l’Università di Roma Tre) ripercor­re (opera teorica di Brandi - senza trascurare però alcuni sguardi alla sua opera di storico e critico delle arti - dai primi dialoghi sulle arti degli anni '50 fino a Teoria generale della critica e ai dibattiti degli anni '70, fornendo una introduzione completa al suo pensiero, e analiz­zando gli aspetti più interessanti e influenti delle teorie brandiane, dall’architettura alla scultura, alla teoria del restauro (della quale Brandi rimane il teorico di riferi­mento, in Italia e all’estero). Con la sua altissima capacità di leggere l’opera d'arte - questa la tesi di D'Angelo - Brandi ci offre il model­lo di una critica che sia partecipa­zione alla legge stessa di formazio­ne dell'opera: in un'epoca in cui la critica letteraria e artistica sembra­no attraversare una profonda crisi, le idee apparentemente inattuali di Brandi ci possono fornire spesso le risposte di cui andiamo in cerca.
Professor D'Angelo, in quale anno Brandi ha esposto per la prima volta le sue idee sul modo di intendere l’arte?
C'e chiaramente un momento di svolta nell'elaborazione delle teorie brandiane sull'arte, ed è possibile collocarlo tra la pubblicazione in rivista del saggio su Morandi ('39) e la sua pubblicazione in volume ('42). In questo breve lasso di tem­po Brandi trova quelle che reste­ranno poi le formule caratteristiche della sua teoria estetica (ne sono spia per l’appunto i mutamenti ter­minologici che si registrano tra le due redazioni del saggio). All’impo­stazione ancora prevalentemente idealistica egli congiunge ora un punto di vista fenomenologico, e questo segue davvero la nascita dell'estetica brandiana. Verrà di lì a poco la pubblicazione della sua prima opera teorica fondamentale, il dialogo Carmine o della pittura, che però esce nel '45 e non avrà ve­ramente circolazione che a partire delle successive riedizioni, Vallec­chi, ‘47, e soprattutto, Einaudi, ‘62.
Carmine o della pittura eb­be però l’onore di una re­censione su Croce: era davvero crociano, Brandi, o era Croce che voleva passarlo per tale?
Croce recensisce subito Carmine nel '46. Il tono della recensione è altamente e direi anche insolita­mente positivo. Ma è come se Cro­ce si concentrasse volutamente su­gli aspetti della teoria di Brandi che si collocano nel solco della propria estetica, non vedendo o sorvolan­do sui momenti di dissenso, non meno importanti in realtà dei primi. Se si guarda bene alle pieghe della recensione, ci si accorge pe­rò che Croce le diversità le scorge­va, solo che non avrebbe potuto accentuarle mantenendo al tempo stesso il netto apprezzamento per il libro. Oggi vediamo meglio come stessero effettivamente le cose: Brandi non rinnega Croce, non lo attacca, ma al tempo stesso segue anche idee proprie, che lo allonta­nano dal filosofo. Quella di Brandi fu a tutti gli effetti la prima estetica post-crociana, non pregiudizial­mente anti-crociana ma nemmeno adagiata sui risultati del maestro.

Brandi riteneva che uno sto­rico dell’arte che non sa nulla di estetica è destinato a rimanere terra-terra». È un vizio che è rimasto radicato?
Credo che si sia anzi diffuso e ap­profondito. Si può pensare quel che si vuole dell'estetica crociana, ma certo nella prima metà dal se­colo estetica e critica (letteraria, ma anche figurativa) dialogavano, ec­come. Si pensi al caso di Lionello Venturi. Brandi probabilmente si riferiva ad altre cose, per esempio alla diffidenza del grande Roberto Longhi per quelle che chiamava le «nevi eterne dal pensiero». Ma, do­po di allora, le cose sono enorme­mente cambiate, e proprio nel sen­so di una radicale divaricazione. Basti accennare all’equivoco culto del «conoscitore» alla Zeri, che ha tenuto banco per qualche anno: il conoscitore è proprio caratterizza­to dalla presunzione di poter fare a meno della teoria. Le conseguenze mi sembrano evidenti: in Italia oggi a mancare è proprio il tipo dello storico dell'arte con forti interessi teorici, che invece all’estero è tutt’altro ­che scomparso. Ci sono ottimi storici dell’arte, beninteso, ma quale individualità può essere avvicinata per competenze anche teoriche, a Hans Belting, Wolfgang Kemp, Georges Didi-Huberman oVictor Stoichita.

Quali furono i suoi riferimenti filosofici fondamentali?
Nomi tutt'altro che ovvi negli anni 90: Husserl, Sartre, Heidegger, tra i contemporanei. Kant tra i grandi del passato. Brandi si è accostato in modo originale alla fenomenologia husserliana. È vero che egli assorbe la fenomenologia soprattutto attra­verso Sartre, ma è sorprendente come sappia risalire, anche attra­verso una base testuale insufficien­te, alle idee originarie di Husserl e come, all'indomani della guerra, prenda sicuramente posizione con Heidegger e contro Sartre. Una scelta indubbiamente non facile, in quel frangente storico. Anche la let­tura kantiana di Brandi ha qualche tratto sorprendente. Brandi intui­sce per esempio le potenzialità del­la teoria kantiana dello schemati­smo per una teoria del linguaggio e del segno. Negli ultimi anni sono usciti almeno dieci libri su questo tema, ma allora l’idea prevalente era che Kant, sul linguaggio, avesse taciuto perché non aveva niente da dire. E Brandi non era uno storico della filosofia, né,in senso stretto, un esperto di Kant.
E le passioni letterarie?
Brandi era un lettore onnivoro e appassionato, ma, almeno per quel che mi consta, con una netta pre­dilezione per gli autori «classici». Anche in senso stretto. Aveva una formazione umanistica invidiabile, di un tipo che mi pare sia com­pletamente perduto nelle genera­zioni successive alla sua (parlo, ov­viamente, dei non specialisti). Ri­cordo, negli ultimi anni della sua vita, di averlo visto intento a rileg­gere l’Eneide, ovviamente in latino. In letteratura, non amava speri­mentalismi e avanguardie. Penso che le aperture che il suo «gusto» si era faticosamente conquistato nel campo delle arti visive o persino in quello musicale, fossero meno pre­senti in quello letterario. Così può accadere di sorprendere Brandi a parlare di Cage  e La Monte- Joung, mentre i suoi esempi letterari sono quasi sempre attinti dalla grande letteratura del passato.
Perché, dopo aver creato l’Istituto centrale del restauro (che gli era costato anni di sofferenze, problemi e discussioni), Brandi, nel 1960, lo lasciò e decise di insegnare storia dell’arte a Palermo?
Innanzi tutto, bisogna considerare che il passaggio dalla carriera di Sovrintendente alla cattedra universitaria era (e in qualche  misura è ancora) naturale per gli studiosi più dotati e più attivi. Inoltre, Brandi non abbandonò mai l’Istituto, che continuò sempre a seguire e che è stato diretto successivamente da suoi bravissimi allievi, come Giovanni Urbani e Michele Cordaro. Infine, Brandi aveva una vena didattica esemplare, come dimostrano i suoi molti allievi che hanno raggiunto ottimi risultati e l’affetto da cui fu sempre circondato. Era un vero Maestro, come poteva esserci in un’Università che oggi non c'e più. Piuttosto, ci si può stupire che Brandi, con la  sua produzione teorica e storico-critica imponente, arrivasse alla cattedra  a 50 anni e oltre, e giungesse sulla prestigiosa cattedra di Roma quando aveva già passato i 60.

Il rapporto Brandi-Argan su cosa si fondava essenzialmente?
Credo che la loro amicizia sia un caso di rapporto intellettuale. Durò tutta la vita, da poco dopo la laurea alla morte. L'amicizia, va da sé, si fondava in primo luogo sulla grande stima reciproca. Una stima che, a quanto mi consta, non fu mai incrinata da rivalità, invidie o semplicemente conflitti come pure è così frequente fra persone che fanno lo stesso mestiere. Ma credo che il segreto di quella amicizia stesse nella straordinaria complementarità delle loro figure intellettuali. Argan era più politico (intendo politico in senso ampio, non con riferimento alla carriera politica di Argan), Brandi era più teorico. Ognuno di loro lo sapeva bene e così, se è possibile esprimersi così in questo modo,  ciascuno veniva in soccorso dell'altro là dove questo era meno forte.

Nel suo libro «I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte», Mirella Serri accenna alla militanza di Brandi e Ar­gan sotto il fascismo.
Credo che si debba far chiarezza. Brandi non ebbe mai grandi pas­sioni politiche. Ma la sua «adesio­ne» al fascismo, se di adesione si può parlare, fu, se altra mai, sem­plicemente strumentale. «Militan­za» è quindi una parola fuori luogo. Non si poteva fare gli insegnanti o entrare nell'amministrazione dei beni culturali senza tessera Chi og­gi rimprovera Brandi per questo, chiede un atto di eroismo che nes­suno che non si sia trovato in quel­le circostanze può dire avrebbe sa­puto affrontare. Non prendere la tessera, per uno studioso come Brandi, avrebbe significato rinun­ciare del tutto alla sua vocazione o emigrare. E allora egli era un giova­ne ai primi passi della carriera, non eriche poté andare a insegnare in America. È vero che Brandi collaborò con bottai, ma oggi sappiamo tutti che Bottai fu un ministro della cultura di un regime dittatoriale, ma di capacità personali e di iniziative notevoli.

Qual è la portata di un’opera come la «Teoria del restauro»?
Credo che per risponderle basti da­re un'occhiata alle traduzioni che ha avuto: spagnola, rumena, ceca, francese, greca. L'anno scorso è uscita quella inglese. Ho da poco fi­nito di scrivere l'introduzione alla traduzione tedesca, presentata presto a Berlino, e stanno per usci­re la traduzione cinese, portoghese e polacca. Maria Andaloro ha cura­to gli atti di un grande convegno sul restauro in cui Brandi è magna pars e che usciranno tra breve. In­somma, se c'e un campo dell'atti­vità brandiana in cui il suo magi­stero è riconosciuto internazional­mente, questo è proprio il restauro. Le indicazioni teoriche e pratiche di Brandi sono entrate a far parte, grazie alla Carta del restauro e all'attività dell'Istituto, di un patri­monio comune che ha contribuito non poco a salvaguardare le nostre opere d'arte e anche quelle di altri pae­si. Paradossalmente, c'è persino il rischio che la multiforme attività intellet­tuale di Brandi venga appiattita su questa sola, pur importantissima, pro­spettiva. Ma la Teoria del restauro di Brandi è appunto una teoria, nasce da una riflessione filosofica ed estetica e non si può, se non a fini puramente operativi, separare da essa.

In Italia basta voltarsi un attimo e non si è più, non si è più stati - diceva Carmelo Bene. E gia così, in Italia, per Brand?
Purtroppo non bastano i convegni e le celebrazioni, pure importanti, per far vivere veramente un autore. Di critici come Brandi, francamente, in gi­ro non se ne vedono. Chi è capace, oggi, di spaziare dal Trecento alla con­temporaneità più bruciante, chi è capace oggi di parlare con eguale competenza  di architettura, pittura, scultura, paesaggio? E poi i libri di viaggio, gli scritti sulla letteratura e la musi­ca, le poesie... No, credo che il grande critico alla Brandi sia una specie estinta. Ed è soprattutto per questo che dobbiamo tornare a leggerlo e rileggerlo.