Recensioni / Per una filosofia della testimonianza

Questo speciale sul filosofo torinese e qui introdotto da Agamben, il quale ripercorre la sua linea si «pensiero inattuale» a aprtire da uno scritto rimasto nel cassetto. Per Carchia la filosofia, ormai ridotta ad «ancilla scientiae» dev’essere inseparabile dall’istanza viva del suo esercizio.

Il testo di cui pubblichiamo qui un breve stralcio, era stato concepito in origine come un contributo a una storia del pensiero del Novecento. Rimasto inedito per ragioni che ignoriamo, esso si presenta ora come una somma testamentaria del pensiero di Carchia (che doveva mancare tre anni dopo, cioè, precisamente, il 6 marzo di dieci anni fa) e, insieme, come una lucida e originalissima situazione critica dell’antropologia del Novecento. In ciascuno dei cinque densi capitoli che lo compongono, l’autore lascia, infatti, affiorare il suo pensiero contestualmente e per così dire in contrappunto alla rilettura di una delle principali correnti della filosofia novecentesca. Così nel primo (1’uomo, un testimone), la tesi della filosofia come testimonianza è enunciata attraverso una critica della concezione che riduce la filosofia a «una semplice istanza metodica». E’ noto che, di fronte allo sviluppo e al trionfo della scienza moderna, la filosofia, almeno a partire dal neokantismo, ha operato un ripiegamento strategico sulle posizioni della teoria della conoscenza e delle sue condizioni di possibilità. La fragilità  del bastione in cui la filosofia aveva creduto di trincerarsi è oggi evidente per tutti; ridotta alla condizione di ancilla scientiae, essa si trova a servire un ladrone che, a differenza della teologia, non ha in alcun modo bisogno dei suoi servigi. E’ contro questo tenace pregiudizio epistemologico che Carchia propone la sua idea del pensiero come testimonianza, inseparabile dall’«istanza viva del suo esercizio» e dall’incontro e dall’urto con «un evento che infinitamente lo supera». Nello stesso gesto, contro ogni subliniazione della testimonianza, Carchia ricorda che la vera testimonianza non pretende di identificarsi con ciò di cui testimonia, che «c’è un pudore del testimoniare, che consiste nel nianiemiere la dissimmetria e la diacronia con l’assoluto».
Nel secondo capitolo (Mito ed esistenza), il contrappunto critico si gioca fra il mito e l’ambigua relazione che la modernità intrattiene con esso. Nella prospettiva di Carchia, il miito non è che l’altra faccia del problema della testimonianza, anzi «la sola figura o esposizione della testimonianza accessibile all’uomo». Proprio per questo, il mito autentico è stretto fra due consapevolezze: quella che la verità per l’uomo è sempre un accadere, che si dà necessariamente attraverso narrazioni, metafore e simboli, e, al tempo stesso, la «consapevolezza che narrazioni, metafore e simboli non sono la verità». Lungi dal darsi come figura e verità di un passato archetipico, il mito è, piuttosto, esperienza della genitività perenne del pensiero, luogo non di una dialettica col passato, ma di un’epifania del presente.
Di contro a questa esperienza testimoniale del mito, sta la concezione del mito della modernità, che (nelle due forme della demitizzazione e della scienza del mito da una parte, e della ricerca di una «nuova mitologia» dall’altra,) non è, in verità, che l’ombra portata dalla ragione illuminista. Secondo Carchia, infatti, razionalità tecnico-scientifica e irrazionalità mitica si specchiano e si riocorrono l’un l’altra in un circolo vizioso, in cui esse si legittimano e, insieme, si delegittimano a vicenda. l’affermazione della coscienza moderna nasce, in questo senso, da una subdola «congiunzione di illuminismo e mitologia», in cui, come nelle nostre università, discipline retorico-umanistiche e scienze della natura possono continuare a fingere di ignorarsi rispettosamente a vicenda, solo perché sanno di essere diventate in realtà i due docili strumenti del dominio di una stessa soggettività antropocentrica. Mito è, al contrario, per Carchia, «riconoscimento, al tempo stesso, della radice naturale dell’uomo e del carattere oltre-umano dello spirito», consapevolezza che l’uomo non si dà che come un campo di forze, in cui «la natura dà l’energia allo spirito e lo spirito dà voce alla natura».
Non è possibile ripercorrere qui nei particolari l’argomentazione dei due capitoli successivi, L’arte come figura dell’oltreuomo e Morale e moralistica. Basti, però, ricordare che Carchia declina la sua critica dell’estetica e della morale novecentesca riprendendo i concetti guida del libro che resta, forse, il suo precoce capolavoro, Dall’apparenza ai mistero (1983, l’autore aveva allora trentasei anni): l’apparenza, giocata contro una certa lettura dell’arte romantica, e il mistero, cifra della «fenomenologia dell’apparire» dei moralisti classici e barocchi, sono evocati in contrappunto al «totalitarismo della ragione storica» che, da Heidegger alla teoria critica, mira a liquidare la dimensione dell’uomo naturale, con le sue abitudini e i suoi stili di vita È significativo che Carchia concluda la sua ricognizione critica dell’antropologia novecentesca  con le stesse pagine che chiudono L’amore del pensiero, il libro uscito pochi giorni dopo la morte, nella cui laconica prefazione aveva definito la propria intenzione suprema come una «una filosofia dell’amore». Carchia parte qui da una critica serrata della definizione della modernità (comune tanto a Blumenberg e a Löwith che, in certa misura, a Derrida e al postmodernismo) come rottura del nesso cristiano di apocalissi e storia. Contro queste concezioni, definite da una stessa perdita di spessore del tempo storico, Carchia fa valere la necessaria coimplicazione di storia e apocalittica. «La storia - egli scrive - è storia solo perché ha una fine, perché tende a una fine», dalla quale può ricevere «luce»; non semplicemente finisce, ma «comincia a finire», mantenendo così vivo il nesso di apocalissi e storia. Ancora una volta, tra l’«euforia gnostica» della fine e la malinconia decostruzionista della dilazione infinita, Carchia iscrive il suo gesto caratteristico, che congiunge in miracoloso equilibrio ciò che sembra impossibile tenere insieme: un platonismo anarchico che sfocia nella contemplazione dell’apparenza e una sobria apocalittica che indugia amorosamente nella memoria di ciò che non può che finire.