Singapore Songlines. Come dire «Singapore sulla via dei canti». Rem Koolhaas fa il verso a Bruce Chatwin nel titolo del suo libro più provocatorio e profetico dedicato allo «studio della (non più) città». Come lo scrittore viaggiatore, l’architetto olandese autore dei bestseller Delirious New York e Junkspace - due testi cruciali sulla metropoli globale e lo «spazio spazzatura» che la invade - si muove su percorsi mitologici, su mappe immateriali per trovare l’ubi consistam della più fittizia e artificiosa delle new town d’Oriente. Singapore non sembra vera ed è iperreale. È sparita nei ricordi e risorta a comando per un disegno politico e un progetto d’ingegneria sociale. È venuta su tutta nuova come un fungo dalle paludi che cingevano il suo centro coloniale. Svanita come un sogno ha realizzato ipotesi oniriche di architetti europei per profilarsi come un incubo del destino mondiale.
Non è una favola: è storia vera e non remota. Koolhaas, oggi 66enne, avvolge nella malìa delle memorie d’infanzia la Singapore intravista viaggiando verso l’Indonesia quando il papà sceneggiatore divenne direttore dei teatri del Far East. Era il 1952 e quel pezzo di terra cinese era sotto il governo britannico. Poi, dopo l’indipendenza del ‘59, nel trentennio tra la nascita della Repubblica di Singapore (‘65) e il ‘95 in cui Koolhaas scrisse le sue Songlines, la città-stato-isola retta dal regime di Lee Kuan Yen, cancellò il passato e ripartì da zero. Fece tabula rasa della vecchia cultura, architettura, perfino della natura e rinacque dal nulla. Eresse «stecche abitative» verticali per contenere l’esplosione demografica. Adibì i shopping center ad agorà. Sgretolò in nome di modernismo, efficientismo confuciano e autoritarismo asiatico la nozione tradizionale - occidentale - di città. E diede corpo a una «sostanza urbana» senz’anima né storia, senza passato né stile che, per quanto esotica, asiatica e lontana ci mostra un volto tetramente familiare. Un’occhiata agli esperimenti urbanistici nell’Europa di oggi - dice Koolhaas nel prologo all'edizione italiana di Singapore Songlines scritto appositamente per Quodlibet da poche settimane - fa pensare: «Siamo meno diversi da Singapore di quanto speravamo».