Recensioni / Una nuova «osteria» per Silvio D'Arzo

La piccola ma raffinatissima Quodlibet di Macerata ripropone un testo di Silvio D'Arzo (Reggio Emilia, 1920-1952) che da tempo era introvabile, essendo comparso postumo e fuggevolmente solo nella incompleta opera omnia dello scrittore reggiano approntata da Rodolfo Macchioni Jodi nel 1960 per i tipi della Vallecchi con il titolo Nostro lunedì. Stiamo parlando del romanzo breve L'osteria (Nota al testo di Anna Luce Lenzi, 1998, pp. 96, L. 18.000).

L'osteria è, come ha scritto la Lenzi, «il gemello dimesso, in versione slavo-novecentesca anziché settecentesco-veneta», del romanzo All’insegna del Buon Corsiero, pubblicato da Vallecchi nel 1942 (e riproposto, tra gli altri, da Adelphi nel 1995). E, si potrebbe dire, un racconto tutto giocato sulle "atmosfere". I personaggi o, meglio, le "figure" che compaiono sulla scena di questa lontana e fumosa osteria sono carrettieri, pescatori, contrabbandieri, di un paese mai sentito che suona Sìvilek. Sia i nomi dei luoghi (Masurek, Novocek, Rikel... ) sia quelli delle persone (Marek, Lepic, Maghit... ) rimandano a leggendarie contrade slave. Contrade umide e piovose, spesso inondate dalle piene del fiume, in cui tutto è «colore del sasso» e anche le lanterne sono «cose tristi».
L'osteria il centro di gravitazione e di unificazione delle diverse vicende che coinvolgono i vari personaggi. La principale attrazione è Eva, la "prosperosa" moglie dell'oste, dispensatrice di gloria e dolci trionfi dietro il banco». Eva, e il nome biblico della "madre di tutti i viventi" sarà stato scelto ad hoc, prototipo di femminilità felliniana ante litteram, rappresenta un modello di donna che compendia in sé la figura materna (perciò l'insistenza sul seno), parentale (di fronte a lei ci si sente «bambini»), e quella della moglie/amante, vissuta pertanto in termini di libido erotica (ma, in sua presenza, ci si scopre anche «vecchi», cioè adulti; in tal senso è forse la figura femminile più "sensuale" nell'intera narrativa darziana).
Ma se Eva costituisce una presenza importante nell'osteria, chi la riempie veramente con il suo ventre spropositato e con la sua grassa risata è l'oste Rovan Giber. Gli avventori, invece, sono gli
umili abitanti di Sìvilek: lo spazzino, l'attacchino, il portalettere, il mugnaio, il mendicante Lepic, il doganiere Cirillo, l'attore Ivan con il fratello Mirko, qualche straniero di passaggio. Poi ci sono gli staffieri e la piccola Maghit, figlia dell'oste. Tutta gente il cui «modo d'essere o di passare sulla terra», come sarà per la vecchia di Casa d'altri (il racconto unanimemente riconosciuto come il capolavoro di Silvio D'Arzo), è «d'una umiltà e un non senso disperati». Il tempo scorre tra boccali di birra e canti tradizionali che richiamano le atmosfere stevensoniane di Treasure Island. È a questo punto che inizia la parte più da vicino riconducibile sul piano tematico al Buon Corsiero. E infatti nel bel mezzo di una . festa che si crea nell'osteria un improvviso silenzio, che si spiega con l'ingresso nella sala di uno sconosciuto. Anche nel Corsiero il silenzio era direttamente connesso all'arrivo di un nuovo cliente, il Funambolo. Ma se nel Corsiero il Funambolo si scopre alla fine essere il Diavolo, nell'Osteria un definitivo smascheramento dello sconosciuto avventore non avrà luogo. Tuttavia la presenza di una serie consistente di indizi suggerisce di attribuire anche a questo personaggio il possesso di una natura quanto meno non del tutto umana e magari un po' trascendente.
E nell'Epilogo si realizza una sorta di caccia all'uomo che ricorda quella del Diavolo-Funambolo nel Corsiero. Quando lo straniero lascia l'osteria, il mendicante Lepic e lo staffiere lo seguono a poca distanza: non avrà luogo un vero e proprio linciaggio (come nel Corsiero), ma piuttosto un'indolore e quasi volontaria uscita di scena . del forestiero, la cui scomparsa, però, provocherà nei due uomini di : Sìvilek un senso come di menomazione.
Rimane a questo punto da decodificare quest'ultima parte del racconto, evidentemente tessuto su una trama tutta simbolica. Secondo un'interessante proposta interpretativa di Elisabetta Baccarani, l'uomo senza nome, lo straniero, rappresenterebbe un'«allegoria dell'infanzia che uccidiamo in noi tacitandola». Si tratta di una possibile chiave di lettura, ma che non è esclusiva. Lo sconosciuto forestiero, di per sé, potrebbe rappresentare benissimo anche l'esatto opposto dell'innocenza, ovvero il germe del dubbio, dell'insoddisfazione, lo sguardo smagato dell'età matura, che contagia e corrompe la piccola Maghit nell'età della crescita. Lepic, allora, in qualità di suo antagonista, potrebbe essere il richiamo della fanciullezza, dell'innocenza, del nido protettivo dell'infanzia. Il dispositivo narrativo funzionerebbe altrettanto bene: e quest'ultima ipotesi è più convincente della prima se si tengono presenti le valenze che l'uomo senza nome riprende dal personaggio del Funambolo-Diavolo del Buon Corsiero. Diciamo questo per evidenziare come non sia possibile una lettura univoca di simboli così complessi come quelli incarnati dai personaggi di un racconto tanto ermetico e per certi versi oscuro .
Il fatto che il Buon Corsiero vada necessariamente tenuto almeno sullo sfondo di ogni interpretazione dell'Osteria, appare incontrovertibile se si è disposti a prestare attenzione ai numerosissimi punti di contatto che intercorrono tra i due testi. Ma rispetto al Buon Corsiero, raffinato divertissement settecentesco, qui c'è forse di più D'Arzo in prima persona. Ciò può essere riscontrato nel rapporto tra Ivan e Mirko. Ivan non vuole che il fratello Mirko canti le vecchie canzoni popolari che gli vengono richieste dagli altri avventori. Il suo atteggiamento verso Mirko è sempre molto protettivo, anche se non appare chiaro da che cosa il ragazzo debba essere protetto (dallo scherno e dalla derisione altrui?). In ogni caso viene marcato, in Mirko, un forte senso di alterità e di diversità, per sopravvivere e non soccombere al quale si rende necessaria la guida e la protezione di un fratello maggiore. Un fratello maggiore che, se vogliamo leggere questo tema così darziano della diversità e dell'esclusione in chiave autobiografica, sostituisce, fa le veci di una figura paterna assente. Il fatto che la mancanza di una guida genitoriale riconoscibile e autorevole pesi e addensi fosche nubi sulla mente dell'autore, è testimoniato da tutta una serie di espressioni (non esclusive dell'Osteria rispetto al resto della produzione darziana, ma qui senz'altro píú frequenti) legate al motivo doloroso e fastidioso di una figliolanza illegittima o comunque della mancanza dei genitori.
Nonostante la pressoché contemporaneità con il Buon Corsiero, L'osteria presenta però delle novità sul piano stilistico. E vero che rimane evidente il valore lirico della pagina, con i suoi endecasillabi disseminati qua e là e con termini o anche brevi porzioni di testo ripetute a distanza (come dei refrain), eppure si assiste a una semplificazione del dettato nel senso di una maggiore sobrietà delle strutture sintattiche. Il ritmo del periodare si fa così più franto e spezzato. Nel terzo capitolo, poi, troviamo un uso interessante e sciolto dei dialogato. Assistiamo inoltre all'abile impiego di una tecnica rappresentativa che potremmo definire "cinematografica": il trascorrere rapidamente da una situazione umana specifica al paesaggio circostante o esterno, per concludere la sequenza. Più in generale, si potrebbe affermare che L'osteria rappresenta un raffinamento in chiave tutta psicologica e interiore della vicenda fantastica del Buon Corsiero. Di conseguenza anche lo stile risulta qui più fluido, scarno ed essenziale. La sua brevitas avvicina questo testo ai racconti più maturi del dopoguerra.
Benemerita dunque Quodlibet (che, di Silvio D'Arzo, aveva già pubblicato nel 1993 L'uomo che camminava per le strade, e altri racconti, a cura di Daniele Garbuglia) a renderne nuovamente possibile la lettura. Un'unica avvertenza per i lettori: i libri di Quodlibet non sono sempre facilmente reperibili. Si trovano, in genere, nelle Librerie Feltrinelli. Altrimenti si possono richiedere direttamente all'editore: via Padre Matteo Ricci 108, 62100 Macerata, tel/fax 0733-231922