Recensioni / Ingeborg, la poetessa che amava Roma e la tragedia di un amore ai tempi della Shoah

All'alba del 26 settembre 1973 Ingeborg Bachmann chiamò Maria Teofili, sua padrona di casa e amica, pregandola di portarle una pomata perché si era bruciata mentre dormiva. Una ventina di giorni più tardi, il 17 ottobre, morì, nell' ospedale Sant' Eugenio di Roma, per le conseguenze di quelle ustioni. Hans Werner Henze, musicista e suo amico di sempre, sporse denuncia per sospetto omicidio: come aveva potuto procurarsi danni così gravi senza svegliarsi, si chiedeva? Ma l' autopsia eliminò ogni dubbio: era stato l' abuso prolungato di alcol e sonniferi, che alzando la soglia del dolore l' aveva resa ormai quasi insensibile a tutto. Niente può spiegare meglio di questo referto la vicenda esistenziale straziante e potentissima di Ingeborg Bachamann. Poetessa, nata in Austria e vissuta ovunque tranne che in patria. Come molti suoi colleghi, detestava l' ipocrisia di una nazione che a lungo negò la complicità con nazismo, fingendosi vittima. Nel 1953 venne per la prima volta in Italia, su invito di Henze. Aveva ventisette anni, ed era già molto famosa. E già aveva disperatamente amato Paul Celan, poeta anche lui, ebreo e vittima dell' orrore dei campi. Alcuni anni dopo lui si uccise, gettandosi nella Senna, e Bachmann scrisse «La mia vita finisce perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione, era la mia vita. L' ho amato più della mia vita». Si conobbero a Vienna - lo racconta Hans Holler in una biografia di lei uscita in questi giorni per Guanda, dal titolo «La follia dell' assoluto» - in un circolo letterario chiamato Gruppo 47. Dove conobbe anche Henze, che subito le chiese di scrivere il libretto di una sua opera ispirata all' Idiota di Dostoevski. E la invitò a Ischia, dove lui viveva. «Portare con sé pochi libri, non fare programmi, attendere, attendere, il grande Pan è in agguato», le scrive il musicista dall' isola, per convincerla. Il carteggio tra i due, «Lettere da un' amicizia», è stato da poco pubblicato da EDT, sempre per la cura di Holler. Bachmann venne e si innamorò dell' Italia, che chiamò sempre la sua «terra primigenia», si innamorò della vitalità e dello sfarzo, della possibilità di trasformare anche la politica in una danza sfrenata (... il comunismo deve essere lusso o non sarà del tutto... il mondo non ha feste comandate,è un giorno di festa). In autunno Bachmann lasciò l' isola e si trasferì a Roma. Le era stata commissionata la stesura di alcuni radiodrammi ambientati in Italia, da una radio di Amburgo. La sua prima abitazione era in piazza della Quercia, vicino al Palazzo Spada. L' anno successivo divenne corrispondente di un paio di radio tedesche e di un giornale, occupazioni che le offrirono una minuscola stabilità economica. E che ci consegnano oggi il lascito di un piccolo libro Quel che ho visto e udito a Roma (edizioni Quodlibet) che raccoglie le sbobinature dei suoi pezzi e alcuni racconti. L' omicidio Montesi, il lancio della Fiat 600, l' elezione di Gronchi alla presidenza della Repubblica, riflessioni sui nostri anni sessanta da parte di un' intellettuale che era quasi in egual misura straniera e cittadina di questo paese. «Non sono le bellezze né gli alberi di aranci, né le splendide architetture che mi fanno amare questo paese ma il modo di vivere. Qui... ho imparato a vivere». Che forse significa anche ho imparato a morire.