Recensioni / Aspra bellezza e globalità dello yiddish postbellico

«Un goy (ovvero un non ebreo) che parli yiddish è come una gallina che canta», suona un proverbio yiddish. Eppure il bel volume antologico di Elissa Bemporad e Margherita Pascucci Step by Step Contemporary Yiddish Poetry (Quodlibet, pp. 233, € 24,00) presenta almeno uno straordinario esempio di tali galline cantanti: il tedesco Peter (Yankl, nel suo nuovo nome yiddish) Conzen, da una cui poesia origina anche il titolo della raccolta e la cui strana presenza impregna le pagine di questo libro elegante e finemente curato. Conzen, a cui e dedicata gran parte dell’lntroduzione, «era un fotografo, un disegnatore e uno scrittore. Ha viaggiato per tutta la vita, ritraendo l'umanità nascosta e dimenticata. Era un grande conoscitore dell’ebraico e dello yiddish, in cui ha scritto un romanzo ed alcune poesie. Ci ha lasciati nell'agosto del 2005». Tedesco, è stato innamorato della cultura ebraica e dello yiddish, con cui avvertiva una sorta di segreta e strabiliante intimità. Strana figura di frontiera, le curatrici del volume lo incontrarono a un seminario intensivo di yiddish organizzato dallo YIVO, il mitico centro per lo studio di questa lingua con sede a New York, nell'estate del 1998 e ha probabilmente contribuito in maniera determinante all’attaccamento delle due studiose, una storica e una filosofa, a questo campo di studi. «Era un uomo speciale, eccezionale: tutti noi sentivamo di aver incontrato il materiale di un angelo, di un malekh [angelo in yiddish] umano», è scritto nell’Introduzione. Dalla sua «straordinaria generosità» nasce la collana «Verbarium» dell’editore maceratese Quodlibet, che ha pubblicato finora nove volumi di autori eterogenei come Ludwig Wittgenstein, Renato Solmi, Ivan Illich; all’interno di questa collana, Step by Step inaugura la serie Conzeniana, dedicata alla cultura, alla letteratura e all’arte yiddish, pubblicata in inglese e in yiddish (in caratteri ebraici, non traslitterati). Chi vada alla ricerca del tono nostalgico, della lacrima versata sul «mondo scomparso» resterà forse deluso da questa antologia, dove gli accenni al passato sono quasi del tutto assenti – o per meglio dire fanno parte del medium linguistico, e non del contenuto. Perché in queste pagine la leggendaria lingua degli ebrei ashkenaziti, assassinata nei campi di concentramento e nelle camere a gas di mezza Europa, (ri)vive non come monito o lamento sui morti, ma come straordinaria lingua di comunicazione culturale, adatta a esprimere i sentimenti più diversi e anche più quotidiani: la solitudine (Again One Stands Alone, di Bella Schaechter-Gottesman), l’attesa prima del parto (Pregnant, di Justin Abbot), la bellezza numinosa di una serata in un bosco (Walking Home Through the Forest Before Evening, di Boris Karloff, pseud. di Dov Ber Kerler). Sono molti anche i testi in cui esiste un chiaro riferimento ebraico: come Café Jew Zoo del pioniere del revival klezmer Yale Strom in cui l’autore, trascinato in un caffè dove anche i camerieri cantano in yiddish e l’aria è densa di «memorie vuote», si domanda «is this nostalgia, or is this guilt? Is this the devil disguised as Solomon?», o come Vilna, del moscovita Velv Chernin, dedicato alla città un tempo nota come Gerusalemme del Nord e che oggi mostra il viso ingannatore di «a mask on a mask on a mask», in cui scheletri tirati a lucido guidano «an endless dance of death around the mausoleums of our brilliant exile», una città in cui per sopravvivere devi essere «the whole year drunk, but sober on Purim» (ovvero durante la festa in cui, unica volta nell’anno ebraico, l’ubriachezza è un precetto): versi che giungono tanto più appropriati in un periodo come questo in cui i governi dei paesi baltici, con la Lituania in testa, si danno un gran daffare per dimostrare l’uguaglianza fra lo sterminio nazista e quello sovietico, e chiamano a interrogatorio ultraottantenni partigiani ebrei sopravvissuti per miracolo in quanto complici dei crimini di Stalin…
Lingua degli ebrei ashkenaziti (dall’ebraico antico Ashkenaz, per Germania), lo yiddish nacque intorno all’anno Mille nella valle del Reno, ma acquistò la sua forma attuale solo nelle migrazioni ebraiche verso oriente, e anzitutto verso la Polonia, paese che della cultura yiddish è stato culla, madre e matrigna al tempo stesso. Prima della seconda guerra mondiale lo yiddish, usato da una popolazione di circa undici milioni di persone, era diffuso in una zona che andava della Siberia all’Europa centrale, dagli Stati Uniti all’Africa del Nord, ed era la lingua europea con la maggiore diffusione spaziale. Una lingua internazionale, anzi hinter-nationale: al di sopra, al di là delle nazioni, come nel calembour del ceco Johannes Urzidill. Nel dopoguerra questa lingua, strappata dal suo popolo e seriamente minacciata di estinzione, è generalmente accompagnata da prognosi necrofile sulla sua fine, o sulla sua possibile esistenza post-mortem. Step by Step contiene una conferma e una smentita. Una conferma: l'extraterritorialità, una delle caratteristiche più evidenti della cultura yiddish, permane anche in questo linguaggio postbellico, in questo yiddish sopravvissuto, sottratto allo sterminio e all’oblio, e si riflette anche nell’apparato metatestuale del volume: è detto, si tratta di un libro in yiddish e in inglese, ma stampato in Italia; italiane sono anche le due curatrici, ma residenti una negli Stati Uniti, l’altra in Inghilterra; ma anzitutto stupiscono le note biografiche dei ventidue autori presentati, i cui luoghi di nascita spaziano da Lódz a San Pietroburgo, da Washington D.C. a Los Angeles, da Puerto Rico a Novograd-Volinsky, e sulla cui vita si vorrebbe generalmente conoscere molto di più delle scarne informazioni fornite in calce al volume. Una smentita: lo yiddish non è morto, e non vuole morire. La sua aspra bellezza si offre – come suona la dedica di Step by Step – a tutti coloro che la vogliono scoprire.