Recensioni / D'Arzo, lo scrittore che conciliò stracittà e strapaese all'osteria

RISCOPERTE Esce postumo il secondo libro di un autore misconosciuto morto poco più che trentenne. Un piccolo mondo antico cesellato con maestria


I critici e i lettori si stanno ancora interrogando sui misteri legati a Silvio D’Arzo, l’autore di Reggio Emilia trascorso come una meteora all’incrocio tra primo e secondo novecento, con la sua esistenza durata poco più che trent’anni (1920-1952), di ragazzo senza padre dal modesto e comune nome di Ezio Comparoni. A recare un contributo viene ora un’opera, “L’osteria”, che, stesa a vent’anni, costituiva un esatto pendant di “all’insegna del buon corsiere”, l’unico romanzo di D’Arzo a vedere la luce, prima della morte precoce. E di nuovo un ardito Vallecchi ne doveva essere l’editore, come già del “Buon Corsiere”, se gli eventi bellici non lo avessero impedito. Rimedia ora Quodlibet, con postfazione di Anna Luce Lenzi. Si conferma così l’immagine di un D’Arzo perfetto conciliatore delle due tonalità che avevano percorso la letteratura, e l’arte, dal ’20 in poi: Stracittà e Strapaese. La prima era divenuta nel frattempo realismo magico, e proprio nei duri anni di guerra Gianfranco Contini ne dava atto con un’intelligente antologia. Ma c’era un radicamento nella civiltà contadina che respingeva ogni intrusione del progresso. Due diapositive quasi opposte, che però riuscivano a sovrapporsi con perfetta sintonia, nella prosa acuminata del giovane D’Arzo. Capace anche di mutare di volta in volta, con straordinaria maestria, le chiavi d’accesso al suo mondo incantato; e dunque, se nel “Buon corsiere” aveva adottato un tocco di venezianità quasi goldoniana, con le Laurette e le mirandoline, nell’”Osteria” invece sceglie nomi di vaga fonia slava: Marek, Dorek, Wronak, Onak, Grik; e la scena stessa dell’arduo esercizio prende il nome di Sìvilek. Il tono dominante di questa prova rinforza i legami con la terra e i pochi mestieri che questa consente: ci sono mugnai, spazzini, staffieri, con in più un’inevitabile figura di mendicante. Una povera comunità divisa tra giorno e notte; e se il primo si illumina del calore dell’osteria, la notte registra l’aprirsi di una voragine beante, al fiume, luogo di incontri di cui non si conosce bene la natura: vi si va per atti eroici, o per scambi con invisibili contrabbandieri? Certo è che le magre sembianze di questo “piccolo mondo antico” vengono cesellate, dal narratore, sospinte verso esiti sospesi, esoterici, ma con pieno accordo col parallelo clima della poesia di quegli anni. Sarebbe bastato, tutto questo, a fare la grandezza di D’Arzo? Certamente no, anche perché di li a poco, a seguito dello sconquasso bellico e della caduta nel regime autarchico, l’una delle componenti non si sarebbe salvata, il clima “magico” sarebbe stato respinto; mentre il radicamento contadino si sarebbe stato respinto; mentre il radicamento contadino si sarebbe tropo dilatato, molte volte nel segno della bonomia e del populismo. Ma proprio la guerra diede a D’Arzo un’urgenza diversa, lo portò ad affrontare una nuda umanità pur sempre radicata alla terra, ma mossa da poderosi soffi di lontananza. Grande merito di D’Arzo postbellico, come risulta da “Casa d’altri”, è di aver portato a sintesi le due componenti, Stracittà e Strapaese, dando all’una corpo, sangue e all’altra un profilo elevato, non sdegnoso di fare i conti con la letteratura.