Recensioni / D'Arzo, meteora nel cuore del '900

SILVIO D'Arzo, al secolo Ezio Cornparoni, morto di leucemia appena trentaduenne (1920-1952) e passato come una meteora nel cuore del Novecento, è uno scrittore poco italiano. Forse russo, mitteleuropeo o slavo, per la dimensione fantastica del suo narrare e per la distanza dall'ordine classico e dalla tradizione accademica nostrana.

Il suo capolavoro, «Casa d'altri», scritto nel 1948 ma uscito postumo nel 1953, definito da Montale il racconto più bello del Novecento, è la storia dl un'attesa, l'incontro sull'Appennino emiliano tra un prete e una vecchina, raccoglitrice di stracci, che gli rivolge una richiesta particolare, quella di «avere il permesso di finire un po' prima» come via d'uscita

alla disperazione dell'esistenza. Su un versante opposto si colloca «All'insegna del Buon Corsiero», un breve romanzo scritto tra il 1938 e il 1940 e pubblicato da Vallecchi nel 1942, ispirato al realismo magico e al racconto d'avventura settecentesco, espressione dl un talento precocissimo, da autentico enfant prodige della letteratura. Se in «Casa d'altri» lo stile è asciutto, reticente, quasi spolpato, qui la scrittura è sinuosa, morbida e avvolgente. Da un lato i tormenti interiori di due personaggi dimessi ed emarginati come il prete e la vecchina, dall'altro l'arrivo di un funambolo che, camminando sospeso su un filo, sconvolge la vita tranquilla di un paesino dell'entroterra veneto: due storie lontanissime dalla moda trionfante del neorealismo di quegli anni.
Ora una piccola casa editrice di Macerata, Quodlibet, ripropone un delizioso racconto di D'Arzo, scritto nel 1940, «Osteria» (pp. 89, 18 mila lire), che Vallecchi pubblicherà con notevole ritardo, a causa degli eventi bellici, nella raccolta «Nostro lunedì. Racconti, poesie, saggi» (1960). Come rileva nella postfazione Anna Luce Lenzi, si tratta di un racconto d'atmosfera pieno di reticenze e misteri, il cui tema di fondo è «l'innocenza indifesa e insieme invulnerabile». L'osteria è una stazione di posta sgangherata immersa nel paesaggio della Bassa padana. Questo paese d'erba e di acque, di confine é di contrabbando, diventa «un crocevia dl attese che sfumano in altre attese». I personaggi sono maschere senza volto che trascolorano dalla vita alla morte, uomini dal baveri di coniglio e occhi d'orfano, mugnai, spazzini, staffieri: Marek, il carrettiere rimasto vedovo che andava con gli altri lungo il fiume a pescare l'anguilla e le rane nei fossi o a raccogliere le erbe tenere, il mendicante Lepic, il doganiere Cirillo, l'attore Ivan, il grasso oste Giber con gli «occhi da insetto, da locusta», Eva l'ostessa e la figlia Maghit, la signora Grik che nella sua scuola non voleva bimbe più alte di un tavolo.

Lo spazio del racconto, che si incide in modo netto nella memoria del lettore, è un luogo senza tempo, Sjvilek, impastato dal fango, dalla pioggia e dall'attesa, percorso dalla «allegria feroce e innocente» dei carrettieri e dai toponimi vagamente slavi. Un mosaico di scene collegate dalla canzone piratesca de «L'isola del tesoro», «... ed una pinta di mm», che sembrano anticipare, per l'aria picaresca, stralunata e incantata, lo splendido romanzo d'esordio di Parise, «Il ragazzo morto e le comete» (1951).