Qualcuno definisce la sociologia come giornalismo di ritardo. In questo caso il ritardo è apparente: esce in italiano un testo del 1995, "Singapore Songlines", di Rem Koolhaas, provvisto di un'introduzione originale. Diciamo che Koolhaas riesce a essere anticipatorio a posteriori. "Singapore Songlines" è la meditazione sul futuro delle metropoli di un architetto-urbanista con la vocazione del sociologo urbano, ma incline a civetterie da apocalittico. Da anni in verità Koolhaas della città contemporanea, da Lagos al cosiddetto "Junkspace", titolo di uno dei suoi saggi più incisivi. Il caso Singapore ribadisce un declino in atto: "Il declino dell'influenza dell'Occidente nella formulazione della città". Singapore lo inquieta, e affascina, quale esperimento di "tabula rasa" globalizzata. E' la città reinventata su basi consumistiche, artificiali, non-democratiche, cui ben si adattano metafore pittoreesche: "disneyland con la pena di morte", "una rilassata versione di Sparta". L'autore ripercorre, negli anni Sessanta, la sequenza dirigistico-paranoica che ha tramutato un'enclave post coloniale con ascendenze cinesi in uno Stato oligarchico capace di riprogettare il territorio imponendo la coesistenza etnica e sociale in spazi separati e sorvegliati. Oggi ne rimane la "caricatura repellente", riconosce l'autore, ma noi occidentali "siamo meno diversi da Singapore di quanto speravamo". E' l'epitaffio di un cinico (che infatti ha progettato senza rimorsi la sede Cctv di Pechiino, la tv di Stato, ovvero il Minculpop della Cina autoritaria).