Recensioni / Autobiografia della nazione

La fine dell’umanesimo. La dissoluzione della democrazia. L’assenza di intellettuali Uno scritto amaro e disilluso sulla cultura italiana e la fine della civiltà letteraria viste con gli occhi di un critico giovane e “precario”: il romanzo di un’intera generazione. Firmato Tricomi

E’ un ritratto amaro e disincantato del Novecento italiano, quello che emerge da La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea (Quodlibet, 2010, pp. 544, euro 34), l’ultima e poderosa prova saggistica del trentacinquenne critico letterario e cinematografico Antonio Tricomi. E allo stesso tempo è un ritratto lucido e spietato della nostra contemporaneità, che vede consumarsi nella direzione di un nichilismo imperante ogni speranza di rinnovamento civile e qualsiasi possibilità di riscatto sociale. Partendo dai più rappresentativi “scrittori intellettuali” del secolo scorso, fra cui Bianciardi, Calvino, Pasolini, Sciascia, Volponi, passando per le questioni teoriche cruciali (la fine del moderno, l’entrata in gioco di un modo nuovo e mercificato di concepire l’opera d’arte) e arrivando a considerare la produzione narrativa e poetica recente, non senza tralasciare i più validi documenti cinematografici di questi anni (Gomorra e Il Divo su tutti), Tricomi costruisce un romanzo polifonico che ha l’intento, per sua stessa ammissione, di proporsi come narrazione generazionale. Dall’alto del 2010, lo sguardo sul secolo trascorso di un intellettuale appartenente, per età e, diremmo, per statuto sociale, all’ormai numerosa schiera del precariato, racchiude un’amara consapevolezza: alla vittoria del nichilismo, al trionfo della società dello spettacolo, alla becera volgarità del berlusconismo, si è accompagnata la dissoluzione del paradigma umanistico, inteso come pratica culturale in grado di tessere le fila di una narrazione condivisa. Cosicché i prodotti culturali cessano di esercitare oggi una pur larvale funzione demistificante e si presentano asserviti completamente al solo orizzonte della mercificazione. E la critica stessa, che Tricomi pratica nei toni di una dedizione intellettuale che è soprattutto consapevolezza disillusa della sua condizione postuma, pare oggi non poter assolvere compiti di comprensione dell’esistente, dal momento che, privo di destinatario, il suo esercizio diventa un puro manierismo narcisistico.
Che fare, pertanto? Tricomi sembra risponderci che, in una situazione di emergenza storica e culturale come la nostra, occorre riappropriarsi delle armi della riflessione. Se in un libro precedente, del 2007, dal titolo significativo di Il brogliaccio lasco dell’umanista (Affinità Elettive), Tricomi aveva chiosato con la necessità di ristabilire le basi per un futuro pensare utopico, la tesi de La Repubblica delle Lettere amplifica questo bisogno, ribadendolo a partire dalla ricostruzione di un quadro storico, in cui, come in un moto perpetuo, sembrano oscillare sempre le date essenziali della recente storia italiana e occidentale: 1948, 1968, 1977, 1989, 1994, 2001. Non si comprende il presente, l’inefficacia delle rappresentazioni letterarie, la scomparsa degli intellettuali dalla sfera pubblica se non si tirano in ballo i fenomeni che hanno reso possibile la debolezza della nostra democrazia, giacché, per il critico, la condizione politica in cui versa il Paese – ma, verrebbe da dire, l’intero Occidente – non è che lo specchio entro cui si riflette la crisi della letteratura e della cultura in generale. Sessantotto e boom economico, Anni di Piombo e contestazione, riflusso e craxismo, diventano, pertanto, nella narrazione di Tricomi, i momenti essenziali in cui un’intera nazione fallisce il suo cammino democratico, divenendo preda, in un caso o nell’altro, di un protagonismo politico più vicino al delirio narcisistico che alla possibile condivisione di istanze civili. E il libro altro non è che il racconto, affidato alle voci di autori e testi che hanno tentato di interrogare la realtà italiana, di un suicidio programmato, in grado di trasformare l’Italia in una piccola America senza radici, terra della convivenza di degrado civile e illegalità.
I libri di Mastronardi, Bianciardi e Volponi sull’industrializzazione coatta di un Paese ancora a vocazione rurale restituiscono, pertanto, il senso di una nazione che già allora, alle prime luci della crescita economica, si dimostrava impreparata a una crescita civile. Le diagnosi di Pasolini sugli anni del ribellismo, quelle di Fortini sull’illusione di un impegno politico costruito sulla perfetta assenza di un’opposizione all’imperialismo economico, le scelte radicali di un Balestrini, quelle meno comprensibili di un Calvino: di tutto ciò Tricomi riannoda i fili per elaborare il lutto, per meglio comprendere la scomparsa, quarant’anni fa, di una civiltà letteraria che aveva già compreso il destino del proprio agire. La tesi è presto detta: la generazione degli scrittori nati intorno agli anni Venti, e di cui Pasolini rappresenta la figura più nota e contraddittoria, è stata l’ultima a coniugare l’esercizio artistico a una possibile comprensione della realtà, l’ultima a praticare una forma di impegno politico che non prescindesse dalla vocazione a rappresentare, con gli strumenti della letteratura, i traumi storici di un Paese che, a passi lenti, usciva dalle ceneri del Fascismo per trasformarsi in democrazia. Ma questa generazione è anche quella che non ha saputo, per Tricomi, assolvere la funzione di padre. Gli eredi degli scrittori intellettuali sono piuttosto orfani di una condizione che non è più quella dei loro predecessori. Essi vivono sulla pelle una mutazione generale che declassa la cultura a mero feticcio, a macchina da consumo e da divertimento; vedono crollare la possibilità di incidere, attraverso le parole o le immagini, sulla realtà; soffrono la condizione di esiliati, di costruttori individuali di “testualità” (per dirla col Barthes studiato da Tricomi), di prodotti che si segnalano per la loro provvisorietà e non ambiscono più a porsi come opere o rappresentazioni condivise. Per dirla in breve, così com’è accaduto per la storia civile di questo Paese, in cui si è verificato, per la prima volta, un tradimento e uno scollamento fra genera-zioni, anche per la letteratura l’attuale congerie di scrittori nati a ridosso del boom economico ha costruito la propria esperienza su un vuoto, su una mancanza.
Tricomi è dunque abile a risalire, attraverso la letteratura, alle cause più generali della condizione presente. Ma se è convinto non ci sia più spazio per un umanesimo capace di contribuire al progresso civile della nazione, egli non dimentica mai di evidenziare come l’Italia, la paradossale Repubblica delle Lettere (in cui le due parole in maiuscolo segnalano entrambe la loro reciproca inattualità), sia soprattutto un sintomo dell’intera decadenza dell’Occidente. Ed è nuovamente un paradosso tutto italiano che i nostri scrittori più interessanti, oggi, esprimano un intimo bisogno di oltrepassare le barriere nazionali, concepite come limiti di un territorio in cui la letteratura pare sempre più concepirsi come un organo dello spettacolo (tra premi, plagi non dichiarati, dubbi romanzi scritti da altrettanto dubbi politici, quando non da comici o vedettes). Ecco perché Tricomi dedica uno splendido saggio alla narrativa di Walter Siti, autore del libro forse più aspramente critico nei confronti dell’Occidente che la letteratura italiana abbia prodotto, Troppi paradisi; o ancora si spinge in una lunga analisi della produzione di Eraldo Affinati, non senza soffermarsi sull’intellettuale più rappresentativo della generazione ormai compiutamente “orfana”, Roberto Saviano. Autori, questi tre, che non solo cercano di prendere coscienza della propria condizione di esuli, ma si sforzano di rimodulare le possibilità concrete di una letteratura che sappia dare ancora risposte. E, a conti fatti, il libro di Tricomi rappresenta forse un correlativo saggistico a questi propositi, imponendosi come l’emblema di una condizione intellettuale ormai comune, ma incapace di trasformarsi in proposta politica proprio a causa di un diffuso adeguamento alla cornice nichilistica che intrappola i soggetti nella passività; e, in fondo, il libro Tricomi questo insegna: che pur trovandoci di fronte a una perdurante distruzione della nostra democrazia, è ancora il caso di tentare a ricostruire la dignità d’essere, prima ancora che intellettuali, critici o scrittori, dei civili cittadini. Lentamente, con la forza della ragione.