Recensioni / Foto finish. Da Ghirri al web cosa resta del fotografo

La fotografia era poco più che bambina, «adolescente», quando Luigi Ghirri la insegnava a una classe di ragazzi fortunati: era il 1989 e l’invenzione di Daguerre compiva giusti 150 anni di vita, appena un sospiro nei venticinquemila anni di storia dell’immagine. Rinascesse adesso, diciott’anni dopo la sua prematura scomparsa, Ghirri la troverebbe mostruosamente invecchiata, la sua giovinetta. Qualcuno anzi dice: già defunta. Trasformata dalla svolta digitale in simulacro, illustrazione malleabile e infedele, senza più analogia con il mondo reale. Così almeno si dice. Ma allora, pubblicare oggi il testo inedito di quelle Lezioni di fotografia (a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro, Quodlibet editore, pagg. 264, euro 22) tenute dal grande fotografo reggiano nell’Università del Progetto della sua città, ritrovate e sbobinate da un nastro magnetico superstite, ha un senso che non sia archeologico?
Eccome se ce l’ha. Questo libro è il documento di una doppia, dolorosa crisi fatale nella storia dell’immagine ottica: la fine della fotografia come oggetto intellettuale, e la fine del fotografo come intellettuale. Una fine a tradimento, una sincope che colpì proprio nel momento più felice. Quando Ghirri, timido e acuto vedente d’immagini nonostante gli occhiali perennemente appannati, quando Ghirri dicevamo saliva in cattedra, era un momento cruciale. Tutto era sul punto di accadere, ma nessuno se ne accorgeva, neanche lui che le antenne le aveva ben dritte. La fotografia era già avviata sulla strada digitale, Ghirri ne accennava quasi di sfuggita, per lui non era importante che la pellicola lasciasse prima o poi il posto ai pixel, e aveva ragione, perché non sarebbe cambiato granché se di lì a poco non avesse fatto irruzione l’uragano che rase al suolo l’intero sistema di circolazione delle immagini per sostituirlo con un altro: cioè l’uragano Internet. Ma la grande Rete non c’era ancora, quando Ghirri raccontava ai suoi studenti che finalmente, dopo decenni di marginalità, «in questi ultimi tempi il fotografo partecipa attivamente alla creazione di realtà con quelle che potremmo definire operazioni culturali globali», che «la figura del fotografo è oggi più sfaccettata, più attiva nella creazione globale dell’immagine di comunicazione».
C’è molta autobiografia in questo ottimismo che ci pare, oggi, saturo di spirito modernista alla Bauhaus. L’etichetta di “fotografo” è sempre stata stretta al ragazzo di Scandiano che aveva le idee chiare come i toni pastello dei suoi paesaggi sereni e quietamente irreali. Appassionato di cinema, di musica (Dylan e Bach), di architettura, gran lettore di un lavoro del pensiero, come la filosofia e la poesia», scrive l’amico di sempre Gianni Celati nella postfazione. Fotografo sì, ma rinascimentale (tanto, per Ghirri, la fotografia è sempre esistita, è un modo che ha l’uomo di guardare il mondo e non la tecnica per farlo), polivalente, trasversale e – parola che detestava – interdisciplinare.
E tanto ci credeva che riuscì a incarnare davvero questo «nuovo modo di agire di una figura storica, quella del fotografo». Almeno due dei suoi «progetti di comunicazione globale», il Viaggio in Italia dell’84 e le Esplorazioni sulla via Emilia dell’86, sono rimasti miracoli unici nella nostra storia culturale: opere davvero collettive (e già mettere assieme la «ricerca combinata» di più fotografi senza gelosie e competizioni fu un’impresa che aveva dell’impossibile) in cui Ghirri, più organizzatore che fotografo, riuscì a far interagire uomini d’immagine e di parola per raccontare il volto di un paese reale. Il Ghirri esposto nei grandi musei del mondo ha forse messo in ombra questo Ghirri organizzatore di cultura, intellettuale a pieno titolo, caso più unico che raro in un mestiere che lui stesso vedeva costretto nelle categorie funzionali dell’artista, del reporter, del dilettante-amatore; mentre il suo sforzo anche didattico, ben oltre i necessari consigli su uso di luce, emulsioni, pellicole e obiettivi, era di trasformarlo in operatore culturale a più dimensioni, che fosse consapevole di essere il perno di una società basata sulle immagini, capace di disegnare con linguaggi diversi una vera e propria «mappa» del mondo, a partire da un preciso e storico «paesaggio-ambiente», quello italiano (non per caso il volume esce per iniziativa della Biennale del Paesaggio).
Un salto di qualità che la cultura fotografica nazionale non ha più saputo fare, a differenza di quella americana che Ghirri amava: i fotografi della Frontiera e della Grande Depressione, loro sì seppero «raccontare un popolo», mentre la nostra vicenda fotografica «non vorrei dire che è una storia di miseria, ma sicuramente non è una grande storia». Della quale Ghirri salva solo gli Alinari, che nella sua visione furono davvero intellettuali operativi dell’immagine, essendo ruisciti a costruire e imporre un modo di guardare l’Italia sicuramente parziale ma «potente» e straordinariamente durevole.
Oggil’immagine del mondo è il percolato dell’enorme fermentazione di Internet, che non ha più bisogno di fotografi intellettuali, anzi non ha proprio bisogno di «fotografi». Per pochi baciati dalla sorte c’è la possibilità di rivestirsi da artisti (è compromessa ormai anche l’etichetta di «artista-fotografo»), e cavalcando la tigre del mercato diventare star da galleria. Gli altri, quelli rimasti volenti o nolenti nel circuito mediatico, decadono a fornitori di una materia prima grezza che subirà infiniti rimpasti prima di essere servita sui monitor di utenti disarmati. E dire che Ghirri era convinto che la fotografia, «carezza sul mondo», facesse da antidoto all’eccessiva velocità di consumo visuale: ci ha lasciati prima di vedere la frana improvvisa della sua utopia nella frenesia mozzafiato delle immagini luminose.