Recensioni / Con occhio d'orfano, nella bassa piovosa. Ripescato un Silvio D'Arzo d'annata

Si racconta la storia di un prete appena vegliardo, che in un paesino sdrucito dell'Appennino emiliano vede sotto propri occhi sgretolarsi le verità dell'esistenza. Quel filo consunto che dà senso alla quotidianità si spezza il giorno in cui una vecchia raccoglitrice di stracci gli chiede il pietoso consenso di togliersi la vita: quando i pesi diverranno insostenibili e la fatica di vivere prenderà il sopravvento. Ne sortisce un monologo interiore che sopravanza la narrazione stessa. Un coro tragico per voce sola, che parla al cuore della disperazione, che si palesan d'improvviso dietro la negazione a ogni conforto offerto dalla religione. Ha certamente ragione chi ha definito Casa d'altri (1953)- il breve romanzo che ha dato flebile luce di notorietà al suo autore Silvio D'Arzo (il cui vero nome era Ezio Comparoni, 1920-1953) - forse la vera unica opera d'ispirazione religiosa del no dopoguerra narrativo. Di sicuro la più drammatica, quella che lascia meno pacificati, e che semmai proprio per questa ragione si vorrebbe adottata come lettura di classe nelle nostre scuole medie e superiori. Perché forse aiuterebbe a rendere meno indigesta e ideologica la rievocazione storica delle vicende che hanno fatto da sfondo alla scelta democratica dell'aprile di cinquant'anni fa. Come in un film di Olmi, poi, ne verrebbe fuori un racconto antinaturalistico e ostico; e in una lingua secca e amara si schiuderebbero alla luce della riflessione tanti piccoli interrogativi: gli stessi che dall'alto di quel. paesino sperso tra le montagne rotolano pericolosemente giù ,a valle, sulla coscienza cattolica e clericale di questo paese.

Differentemente da altre figure per così dire «atipiche» della nostra letteratura, da Delfini a Landolfi, affini a lui per il velo di rimozione e di dimenticanza che è calato sui loro libri, D'Arzo appare un autore decisamente meno fortunato. Un vero e proprio recupero, infatti, ancora non c'è stato. L'interesse di una casa editrice importante (Adelphi) ha consentito soltanto qua!che anno fa di recuperare l'altro suo libro maggiore, All'insegna del Buon Corsiero (1942). Storia deliziosa e strampalata -' solo in parte lontana dai tormenti del prete di Casa d'altri -, che racconta in un Settecento pitocchesco l'arrivo di un «ciclone» che si abbatte senza scampo sulla vita di un tranquillo posticino dell'entroterra veneto: un funambolo dall'estro irriverente e demoniaco con cui presto più o meno tutti saranno chiamati a fare i conti.

Ben si comprende perciò se dalle due opere sia derivata in seguito un'endemica impossibilità da parte della critica nel tracciare un'univoca cifra stilistica e poetica dalle evanescenti sembianze che animano il mondo di Silvio D'Arzo. E ciò nonostante che lo sguardo acuto di uno studioso come Walter Binni, diviso tra gli studi sul Leopardi e gli interessi per la letteratura contemporanea, avesse consentito precocemente di guardare con attenzione alla nascita di questo scrittore appena ventenne: segnalando nel maggio del '43 proprio All'insegna del Buon Corsiero assieme alle Poesie a Casarsa dell'esordiente Pasolini, sulle pagine de La Nuova Antologia. Poi, a parte gli elogi di Montale, la stima di Cecchi e lo struggente rimorso di Bufalino per un'amicizia infrantasi sul nascere, quando lo scrittore siciliano era ufficiale al Nord bloccato dall'8 settembre, poco altro ancora, qualche articolo su rivista a parte.

Un tentativo di scavo tra le tante carte inedite di D'Arzo è ancora da venire e felice giunge allora la notizia che almeno una casa editrice attenta come la Quodlibet di Macerata abbia deciso di dare un contributo essenziale per la conoscenza di D'Arzo: ripubblicando prima (1993) la raccolta L'uomo che camminava sulle strade e adesso L'Osteria (pp. 89, £.18.000): racconto a suo tempo compreso nella silloge Nostro lunedì. Racconti, poesie, saggi uscito postumo per Vallecchi nel 1960. Una fabula incantata e disincantata questa Osteria, come sospesa in un'ambientazione senza tempo che trascolora persino la riconoscibilità e le fattezze dei luoghi, dei suoi personaggi. Quelli che se ne stanno immobili sul paesaggio spaesato di una Bassa piovosa e scarna, stesa accanto al letto di un fiume rigido come il marmo che punta gli occhi dritto sull'Adriatico. Mare che unisce invece di separare l'Adriatico, un altrove che si sdoppia di continuo nella litania dei nomi che giocano con le reminiscenze della lingua slava. Nomi che non corrispondono poi a personaggi veri e propri ma che sono appiccicati alle maschere senza volto che li rappresentano: con il bavero di coniglio e gli occhi d’orfano a metterli giusto in forma, a dargli un accenno esiziali di sostanza. Marek il vedovo, Ivan l’attore, il mendicante Lepic, il doganiere Cirillo… L’uomo-pescatore, il secondo staffiere, tante entità fantasmatiche più che reali insomma, che prendono vita e si congedano davanti al lettore in un balletto di maniera che fa dell’affabulazione di D’Arzo una stazione di posta scalcinata L’osteria appunto) buona giusto per incontrarsi annusarsi e subito dopo abbandonarsi. Mentre il meccanismo surrealistico della narrazione tracima al proprio interno apparizioni assurde e scollate che in certi passaggi luminosi rammentano la poesia stralunata e bellissima del primo Parise de Il ragazzo morto e le comete. Di fronte al ricordo della Grande Inondazione che si era portata via con la piena del fiume l’assortito caravanserraglio di un circo di zingari “venuto senza ragione a morire in quei gorghi dall’odore di anguille e alga di fiume”. Mentre nel ricordo di “ragazzi, salvatisi con le bestie, nani, lance, bandiere”, gli altri snocciolano il personale rosario di nomi in una cinica sospensione del dramma, in un allontanamento repentine dal vero, dal reale, proprio di un’elaborazione del lutto ancora infantile e perciò quasi cinica:” E lumbo? E Coco? E Coco? Morto. Morto anche lui”.

La lingua diviene il territorio magico del rifugio e del nascondiglio. Con la canzone rievocata ad ogni avvicendamento del quadro espositivo a fare da sfondo alla narrazione, da accompagnamento rapsodico, consequenzialità trasognata, al lento svolgimento degli eventi. «Ho in tasca tutta la paga, tutta la paga di un anno. Voglio un tuo bacio ragazza, ed una pinta di mm». E le presenze desunte dal vero trasmigrano continuamente nel fantastico, nell'immaginario; come vieti attraverso gli occhi della piccola Maghit, ancora troppo piccola per attirare l'attenzione degli uomini ma sufficientemente grande per lo sguardo severo che si nasconde dietro gli occhi da insetto del padre. «Occhi di locusta» quelli dell'oste che infilzano ogni viandante all'ingresso dell'osteria. Segno distintivo di una predilezione tutta darziana quello per l'infanzia e che tenne ben legato questo scrittore e la sua ricerca alla smagata irresolutezza di una poetica che a ragione Anna Luce Lenzi, nella nota a margine dell'Osteria, definisce «dimessa e feriale»; che lungi dal proporsi quale pura e semplice evasione dal reale, al contrario «chiama a soffrirne un interrogativo sconsolato, senza sosta, senza risposta».