È stato appena annunciato che il Leone d'Oro alla carriera della prossima Biennale d'Architettura di Venezia andrà all'architetto olandese Rem Koolhaas. Nessun problema. Una certa ammirazione serpeggia tra i cultori della materia, nelle redazioni delle riviste specializzate, dietro le porte dei dottorandi. Il nome di Koolhaas è una legione di date, forme, luoghi e idee. Il progettista della magnifica Central Library di Seattle (2004). Il compositore matematico e astrattista della Casa do Musica di Porto (2005). Poi la Cctv, la sede della Televisione pubblica cinese, a Pechino, ancora in costruzione ma ben visibile nella sua forma impossibile: struttura che mangia se stessa, anello di Moebius, percorso lanciato ai limiti di ciò che Euclide suggerirebbe di proiettare nell'aria. Basta scorrere rapidamente le immagini di questi progetti, oppure fare una cernita delle pagine che magazine di ogni tipo vi hanno dedicato, o anche solo far schioccare tra gli appassionati l'eufonica accoppiata nome e cognome, per rendersi conto dell'attrazione fatale che il nostro conscio collettivo mediatico ha sviluppato per la figura nordica e brutale di quest'uomo altissimo che da ragazzo ha passato anni a intervistare personaggi come Fellini e Le Corbusier. E anche se non vince la classifica stilata dall'ultimo numero del «Vanity Fair» americano – che ha chiesto a una cinquantina di addetti ai lavori globali di indicare le architetture più significative del XXI secolo – lo spazio e i commenti centrali dell'articolo che accompagna la lista sono proprio dedicati al pensiero e all'influenza di Koolhaas. E «Vanity Fair» americano, non dimentichiamolo, è il megafono di Hollywood.
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