Recensioni / Angeli e sogni, ma non solo

SEMPRE Silvio D'Arzo cautamente giustappone mitezza e tetraggine, e il fragore dell'orrore avvolge in una prosa che direi taciuta, afona, e insieme straordinariamente leggera, poco più, poco meno di un mero gioco di luce». Così Giorgio Manganelli. Autore defunto ma ormai riconosciuto dalla critica, morto a trentadue anni, D'Arzo lasciò una manciata di racconti che non è esagerato definire tra le più alte prove narrative del, dopoguerra Italiano.

La citazione di Manganelli è riportata nel bel volume L'uomo che camminava per le strade (Edizioni Quodlibet, 190 pagine, 22 mila lire). Benché sarebbe forse stato opportuno accludere un saggio più ampio dell'anonima nota in appendice, il libro si raccomanda per l'intelligenza e l'esaustività dei materiali presentati. Si va dal lungo testo che dà il titolo all'opera (un brano giovanile del 1940) all'autobiografico Prefazione a Nostro lunedì (primo capitolo di mi romanzo, progetto e mai iniziato, che avrebbe dovuto raggiungere te seicento pagine). La parte più ricca della scelta riguarda, ad ogni modo, il nucleo dei racconti brevi, che annovera alcuni autentici gioielli.

Da questa selezione manca il testo più celebre, ossia quel Casa d'altri tuttora disponibile da Einaudi. Era bene, comunque, riproporre l'opera di D'Arzo disancorandola da' quel magnifico vertice cui il nome dello scrittore corre il rischio di rimanere troppo a lungo impigliato. Casa d'altri costituirà pure il suo capolavoro - brullo e fangoso, desolato e montano come i paesaggi di Thomas Hardy -. E' bene, però che il pubblico scopra il delicato congegno dell'Elegia della signora Nodier, o la tragèdia casalinga di Due vecchi, per non parlare di certe prose di guerra (Un minuto così e Una fasciatura benfatta) di mirabile lega.

Già a una prima lettura, salta agli occhi il bizzarro slittamento di alcuni incisi, brani o addirittura lunghi passi, che vengono ripresi in più occasioni. D'Arzo, evidentemente, voleva trovar loro il posto giusto, e non esitava a reimpiegarli nei modi più svariati. Certo, queste numerose «migrazioni interne» potranno sembrare una semplice curiosità, buona per gli studiosi di variantistica. Tuttavia, ciò fa capire quanto complesso e faticato fu l'aflinamento di un'arte in apparenza elementare.

“Per lo più parlavamo dì bambini o di sogni o di angeli; o magari di tutti e tre insieme (...) Praticamente, non fummo mai in grado di far dire due o tre frasi credibili a un uomo, ma quanto a fantasmi e bambini e cadaveri nessuno in coscienza poté farci il più piccolo appunto. Si può dire che ci specializzammo nel ramo. Ci bastava un lenzuolo e tin giardinetto deserto e un bambino sul far della sera che guardava il lenzuolo e il giardino, ed ecco subito fuori una cosa squisita squisita».

D'Arzo non fu davvero tenero con se stesso e la sua generazione. Composte nel 1940, queste parole della Prefazione a Nostro lunedì si riferiscono comunque solo a una parte della stia produzione. E' il caso dello struggente Peccato originale (di estrema forza lirica e stilistica), ma anche dei meno riusciti Una storia così e Fine di Mirco (dove gli stessi temi appaiono notevolmente diluiti). Nel bene e nel male, quanto inatteso Peter Handke o Wim Wenders! Eppure, nel giro di pochi anni, D'Arzo riuscì ad evadere da un genere che giudicava angusto, e compose racconti assai diversi dai precedenti. Era concluso, ormai, l'apprendistato, con tutta la stia poetica dello «squisito». Come sarebbe stato possibile, altrimenti, concepire il terribile tradimento di Una fasciatura ben fatta? Esistono forse frasi più «credibili a un uomo» di quelle che vi si leggono?

Grosso, con un'aria depressa da vedovo, incapace di marciare spedito, il maresciallo sta per essere abbandonato ai tedeschi dai suoi compagni di fuga. Fino all'ultimo, cerca tu scherzare. Loro tacciono, non ricambiano lo sguardo, divisi tra vergogna e irritazione. Poi, durante l'ennesima sosta notturna causata dai suoi malanni, eccolo alzarsi sull'erba: “Adesso, tutto sotto la luna, le sue gambe apparivano enormi e bianchissime”. E basta appena qualche tratto cromatico perché il paesaggio assuma su di sé quella pietà che l'anima degli nomini non sa più contenere.