Diario, la rivista di Bellocchio e Berardinelli fatta in casa (e in birreria). Solo dieci numeri totalmente necessari per dire che «la borghesia non è mai stata tanto peggiore come da quando flirta con la sinistra»
Più autarchico di così, probabilmente c’è stato solo Karl Kraus, che la sua Die Fackel (la Fiaccola) dal 1911 fino al 1936 se l’è scritta e pubblicata a Vienna da solo, con periodicità legata a vicende personali, viaggi, soldi di volta in volta a disposizione. Gli autori ed editori di Diario, invece, rivista uscita dal 1985 al 1993 (dieci numeri in tutto, ora riproposti in volume, in copia fotostatica, da Quodlibet, 850 pagine, 46 euro), erano in due, i critici letterari Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli. Doppia anche la sede: casa del primo, a Piacenza, casa del secondo, a Roma. La vera redazione operativa, racconta al Foglio Berardinelli, «era però una birreria bolognese ora scomparsa, Lamma, dove si poteva ordinare un gulash alle cinque del pomeriggio. Ci passavamo ore a parlare e a lavorare alle bozze. Ma un tavolino di caffè andava bene lo stesso». In epoca di fotocomposizione, Diario - mille copie, poi millecinquecento e infine duemila, sempre esaurite - era ancora composta a piombo, non aveva pubblicità ed era distribuita a mano personalmente dai suoi artefici, almeno nelle librerie del centro-nord. Scelte di gloriosa inattualità, per i due reduci dalla rivista culto del movimento, i Quaderni Piacentini (Bellocchio li aveva fondati, Berardipelli era stato un collaboratore più tardivo) che non trovarono un modo diverso da quel Diario - così personale da sembrare privato - per «prendere atto del cambiamento dello scenario sociale e politico, contro la falsa coscienza di una sinistra che si immaginava immune dal contagio della cultura dominante, convinta di aver conservato l’egemonia culturale fino a delirare di una propria ‘diversità’, come se la società italiana non aspettasse altro che di essere guidata e salvata». Quella sinistra, secondo Bellocchio e Berardinelli, non solo non avrebbe salvato l’Italia, ma non sarebbe riuscita a salvare nemmeno se stessa: «La smania d’aggiornamento, la corsa all’adeguamento di molta cultura comunista fa un effetto grottesco. Come una donna tutta casa chiesa famiglia che a cinquant’anni improvvisamente scopre il piacere del sesso libero. Anzi, il dovere». Lo scriveva Bellocchio nel saggio «Il recidivo», lo stesso in cui notava che «non ha nessun senso che gli Editori Riuniti pubblichino Joseph de Maistre», visto che «nessuno pretenderebbe dalle Edizioni Paoline la pubblicazione di Diderot o Sade», ma sosteneva anche che «la borghesia non è mai stata tanto peggiore come da quando flirta con le idee di sinistra». Era il secondo numero di Diario, quello che si apriva con «La Repubblica: un club esclusivo, ma di massa», dove Berardinelli identificava nel giornale fondato da Scalfari il prototipo di una tendenza culturale trionfante, bisognosa di un pubblico «che teme ossessivamente la vergogna dell’esclusione e del declassamento». Di Repubblica, Berardinelli criticava «il ruolo edificante, consolatorio e pastorale», e la promozione di un grottesco «snobismo di massa». E se Bellocchio continua a pensare che «alla base della rovina della sinistra italiana c’è la Repubblica», Berardinelli aggiunge: «La sinistra che avevamo sotto gli occhi era ipocrita. La sua élite e parte del suo elettorato non erano più di sinistra, ma andavano a caccia di privilegi e di sublimazioni. Penso a Occhetto che alla domanda su quali libri leggesse, rispondeva: «soprattutto libri Adelphi». La miscela della rivista (spillata, formato quaderno, copertina con colore piatto, ogni volta diverso, e un’etichetta bianca con il sommario del numero) obbediva alla formula «due vivi e un morto», spiega scherzando Piergiorgio Bellocchio un saggio di ognuno dei due autori-editori (e alla bisogna distributori), e il testo di un classico: Kierkegaard, nel primo numero, e poi Leopardi, Thoreau, Tolstoj, Baudelaire, Simone Weil, Aleksandr Herzen, Orwell, Rabelais. Erano gli autori, spiega Berardinelli, «che sentivamo come fratelli contemporanei, come bussole. La scelta nasceva dalla coincidenza di sentimento con le nude parole di quei classici, presentati senza bibliografia critica».
Diario, del resto, condivideva con gli antiprogressisti Kierkegaard e Leopardi l’antipatia per la categoria dei «mediatori», «politici, giornalisti, preti, professori ecc., con le loro idolatrie». Alcuni tra quei mediatori ovviamente non gradirono. «La rivista fu accolta negativamente, con accuse di scelta elitaria, apolitica-impolitica, anche da parte degli amici e degli ex collaboratori dei Quaderni Piacentini», ricorda Berardinelli, «e per il resto ci fu silenzio. Avemmo però l’appoggio di Sebastiano Timpanaro e l’approvazione di Giovanni Jervis, oltre che di Cesare Garboli (ci disse che non si era mai tanto divertito se non leggendo Molière), di Renato Solmi e di Carlo Ginzburg, che si abbonò e abbonò anche la madre Natalia. E poi ci scrissero tanti vecchi letterati, germanisti degli anni Quaranta, studiosi sconosciuti e immalinconiti dalla piega che prendeva la vita culturale italiana. Lettere così belle che avremmo voluto pubblicarle, se non fosse stato troppo autocelebrativo». Bellocchio aggiunge che «una delle massime soddisfazioni me la diede mio fratello Alberto, sindacalista ed editore, quando mi raccontò che la rivista era piaciuta molto alla sua dattilografa. E vado molto orgoglioso dei complimenti di due maestre d’asilo di Piacenza. Per quanto mi riguarda, credo di non aver mai pubblicato qualcosa che non potesse essere letto da chiunque». Gli fa eco Berardinelli, che su Diario, qualche lustro fa (ma non ha mai cambiato idea), scriveva che l’unica possibile teoria della letteratura è: «Dire nel modo migliore possibile qualcosa di interessante». Scandaloso, negli anniin cui la semiologia aveva l’ambizione di soppiantare la critica letteraria, riducendo «romanzi, racconti e poesie a una serie di schemi grafici e di espressioni algebriche: ad un pugno, cioè, di ronzanti mosche» (Alfonso Berardinelli, «Lessico», nel primo numero di Diario). A sfogliare i dieci numeri della rivista, viene da pensare ai due autori come alla coppia Bouvard et Pécuchet, cambiata di segno. Se i due copisti di Flaubert si proponevano infatti di stilare l’enciclopedia dell’intero scibile umano, di compilare il catalogo esaustivo dell’intelligenza, e così facendo perdevano il cervello, «noi abbiamo cercato di compilare l’enciclopedia della scemaggine, l’antologia italiana della stupidità catastrofica, per cercare di conservarlo, il cervello” scherza Berardinelli. Il critico letterario Raffaele Manica incontrò Diario a ventisette anni. Al Foglio racconta che «aspettare l’uscita di Diario era una festa. Di fronte al primo numero, ho avuto l’impressione di trovarmi a casa. Perché? Ma perché finalmente si usciva dalle teorie para o pseudo-scientifiche di analisi letteraria, allora molto in voga, e si respirava più distesamente. Lì ho capito che cosa poteva essere il saggio per un mio contemporaneo. A cominciare dalla grandissima qualità nella scrittura. Severa, ma capace di aprirsi impovvisamente al comico, come nelle ‘Operette morali’ di Leopardi». Quei saggi, e quei due autori diversi che parlavano «con una voce sola, erano finalmente attenti alle ragioni dell’esistenza, alle reazioni della vita quotidiana, con un’attenzione alla scrittura che non si trovava nemmeno in molti romanzi all’epoca, assai celebrati. Si usciva dalla temperie della letteratura ridotta a schema, a formula chimica. In Diario si dialogava con la letteratura attraverso altra letteratura». La lettura di Diario riserva momenti di strordinaria comicità, di pietà, di malinconia. Contrariamente a quanto accade agli autori specializzati in un solo tono, i saggi di Bellocchio e di Berardinelli hanno l’andamento e la varietà dei discorsi conviviali. «La frequentazione dei gruppi intellettuali non è nelle nostre corde, si è capito dice Berardinelli - e la nostra è stata una fuga dai generi dominanti. Bellocchio è fuggito dal romanzo, avendo la testa del romaziere, io dalla poesia. Abbiamo trovato congeniale la forma del saggio, la più antica che ci sia. I primi aforismi sono stati scritti da medici e la moralistica, in fondo, non è che una forma della medicina». L’amico Bellocchio, per Berardinelli, è così «uno Chamfort contemporaneo, l’ultimo dei moralisti, fatto fuori dalla rivoluzione». Diario chiuse nel 1993 per evitare ghigliottine? Bellocchio dice che avrebbe voluto continuare, ma prevalse l’idea di Berardinelli, convinto che «da certi punti di vista, avevamo detto tutto. Avevamo scoperto, per conto nostro, cose che cominciavano a diventare molto evidenti. Avremmo avuto più da ripetere che da scoprire”.