Queste Operine di Cornia (perché mai chiamarle Operette:
in esse non v’è traccia di procedimenti mimetici, di dialoghi o di
“contrasti” che si svolgano se non dentro se medesimo) comunicano un
diletto pulsante di commozione simile a quello con il quale, più di
dieci anni fa, i lettori salutarono il suo primo “dramma” intitolato Sulla felicità a oltranza.
Non è vero, come molti dicono, che per un autor giovine sia tanto
difficile irrobustire il passo dopo la prima fortunata opera, qui siamo
già alla settima o giù di lì e la gagliardìa degli inizi continua a
sciogliere i suoi muscoli.
Personalmente al tempo dei suoi esordi
(anno 1999) godetti altresì di due gioiuzze, effetti campanilistici
collaterali di una immedicata paesanità. 1. Che Ugo Cornia, così
modenese nell’epigastrico e nell’immaginario, aveva visto la luce
all’ospedale di Carpi, non so se con oppure senza taglio cesareo, per le
cure ideo-ginecologiche di un vero mago dell’ostetricia. 2. Che Cornia
andava pubblicando pe’ tipi della Sellerio dove un mio fratello
carissimo forse carnale, ma diciamo morganatico, aveva per anni inviato
certi suoi romanzi che quella casa editrice non potette giungere a
pubblicare, diceva lui, a causa della sopravvenuta defunzione di
Leonardo Sciascia che molto ne aveva ammirato gli scritti (lui ancora
diceva) ma che aveva altro a cui pensare ristretto com’era tra minacce
della mafia e polemiche sull’antimafia.
C’era poi la ragione
principe. Che Cornia ha suppergiù l’età dei miei due figli maschi, nati
nello stesso nosocomio Ramazzini, celebrante il medesimo primario la cui
fama volava, e ancora trascorre nel ricordo popolare, ben oltre la
marca mutinense. Il quale luminare della scienza medica (guarda un po’
dove vanno talvolta a nascondersi gli ùzzoli letterari!) era primo
cugino di un suoceretto, il mio più amato.
Per farla breve, mai la
disordinata passionaccia del sottoscritto per la lettura di libri
scritti in buon italiano si era trovata materialmente ad intrecciarsi,
sia pure per via di corrispondenze parentali poco-poco significative e
di prossemiche generazionali, con l’opera e la persona di un narratore
autentico, gloriosamente autoreferenziale (ah, la cruna dell’ego!
potrebbe sentenziare qualche catubone locale) qual è il nostro Cornia.
Egli incarna la figura, abbastanza inedita nel panorama delle patrie lettere, dell’ingegnoso farabulàn.
(T’ì propria un farabulàn! Così si opponeva da giovanetti la madre alle
nostre fantasiose proteste di innocenza dopo una birbonata, ma
sorrideva tra sé divertita, quasi compiaciuta, l’adorata mentitrice!).
Non si sa se questo termine sia in uso sotto la Ghirlandina, terra
etrusca su fondali stendahliani. Qui da noi che ci vantiamo di
ascendenze bizantine significa “parabolàno” cioè narratore di fatti
anche immaginari ma realistici: da parabola, nell’accezione antica,
persino evangelica, di parola.
Racconti, per l’appunto, ipotetici
(mai ipotattici, ohibò, sarebbero indegni di un rigoroso fluttuatore dei
propri moti di coscienza) come la sparizione di piazza Grande e “in un
attimo vrum” dell’intera Modena; e il materializzarsi di un cubo d’oro
massiccio un metro per un metro di spigolo, e il padre morto che torna a
casa per mingere col figlio in compagnia, una delle sue visioni più
poetiche (dico sul serio, orfano di padre da più di mezzo secolo ho
avuto anch’io apparizioni analoghe ma ne attribuivo tutto il merito al
lambrusco). Un Bukowski senza fini anticonformistici ed eversivi che va
sotto braccio dell’irlandese Berkeley col suo esse est percipi e
l’allegro chiasmo (o endìadi?) di una doppia contraddizione, con buona
pace di chi ci governa e amerebbe che ci sembrasse non vero quel che qui
non c’è o viene sistematicamente distrutto. Ma Cornia non sembra voler
premere il tasto dell’impegno sociopolitico e nemmeno del sacrosanto
diritto di ognuno agli eccessi libatorii (per legittima difesa dalle
incivili norme imperanti contro gli heiliger Trinker, i santi bevitori).
Lo affascina piuttosto, per esempio, tutto ciò che Gianni Brera chiamava il corpo della ragassa.
L’espressione includeva ovviamente anche le femmine, compresi certi
loro ingannevoli sguardi. Ma (e qui sta la rinnovata scioltezza - basta
con la leggerezza calviniana! - sul piano esistenziale suo, e su quello
della narrazione che riguarda noi lettori) questo avviene senza
ossessioni: l’autore non mostra certo smodata pesanza quando descrive i
suoi stupori e trasalimenti e tanto meno se adopera locuzioni e modi
espliciti per significare (e forse indicare a più acerbi aspiranti
scribi) le proprie immaginazioni fantasmatiche. Semplicemente comunica
il suo mondo di scrittore sano in una società malata. La pudicizia, il
sentimento di riservatezza di Cornia, nota presente in tutti i suoi
libri, si dilata qui nel linguaggio esplicito su Dio, sui miracoli (ai
quali dedica ben quattro capitoletti) e sui (grazie ai) propri sogni.
(Non ho mai dimenticato la premessa a un affannato, gioioso racconto che
mi fece una mia figliola quand’era fanciulletta: Non ricordo, babbo, se
l’ho visto o se l’ho sognato).
Le Operette segnano
forse, se si può azzardare l’ipotesi, un’accentuarsi di spiritualità,
con la tendenza a riflettersi, o meglio a confessare tutto del proprio
mondo tranne che se stesso. Nessun vero poeta, anche volendolo, è mai
riuscito a farlo, per fortuna. Tranquilli, adunque. Soprattutto circa
l’insinuazione che qualcuno ha sussurrato in questi giorni all’orecchio
dello scrivente: Non hai la sensazione che Ugo Cornia si sia messo sulla
strada della conversione? Non modenesus erit cui non fantastica testa:
il giudizio che in risposta viene in mente, citazione (un po’ abusata,
invero) dal poema maccheronico del mantovano Merlin Cocai costituisce
una garanzia. Il Folengo voleva probabilmente lanciare una frecciata
contro i modenesi, ma quel “fantastica” oggi non significa più soltanto
balzana o strampalata, e in ogni caso suonerebbe come una lode.